Il Gariglione fra natura, storia, archeologia industriale.

C.A.I. SEZ. CATANZARO
Caserma Gariglione © Cai Catanzaro

C’è stato un tempo, neanche tanto lontano, in cui in Calabria, nella Sila, si progettavano e si realizzavano grandi invasi, forieri di una modernità che avrebbe portato tanta energia pulita, la bonifica di sconfinati terreni in mano a secolari baronie, la divisione delle terre e la loro concessione a chi da sempre le lavorava. Grandi invasi, le cui costruzioni furono terminate in pochi anni, che hanno cambiato luoghi antichi frequentati solo per il taglio dei boschi, per la pece degli alberi e per poco altro, luoghi conosciuti per le selvagge bellezze e per la distanza dal resto del mondo. Ma, in quei luoghi, c’era anche altro, c’era un fermento di attività a cavallo fra la natura e l’industria, un qualcosa che oggi varrebbe la pena far diventare un progetto di archeologia industriale.
Ne voglio parlare, partendo da una escursione di settembre 2023 con amici della montagna e dalla lettura di un libro forse unico nel suo genere (M. Belcastro, Passato e Presente Quante Storie, 2022, Pubblisfera Edizioni).

Ho avuto la fortuna di leggere il libro di Belcastro, una vera e propria miniera di notizie, ricordi ed emozioni sulla Sila Piccola e ho avuto la fortuna di partecipare da organizzatore a una escursione con amici della montagna lungo i sentieri del Bosco del Gariglione. 
Belcastro ha vissuto per tanti anni, a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, in una isolata abitazione nella parte bassa del Gariglione, nei pressi della presa che, dal fiume Tacina, alimenta il lago Ampollino. È stato testimone della fase di splendore di quel gioiello che è l’area dell’Alto Tacina. Il Tacina è un fiume della Calabria che nasce nell’altopiano della Sila Piccola e va a mare nel Golfo di Squillace (Mar Ionio) dopo un corso di 58 km.
Il cuore di quel posto è ancora la caserma Forestale.
Il Gariglione si può definire una metafora della Calabria chiusa e antica (varrebbe la pena rileggere in Old Calabria ciò che scrisse Norman Douglas del suo viaggio in Calabria fa il 1907 e il 1911). 

La natura selvaggia e incontaminata di quella foresta colpì l’autore che la definì un “Urwald" o giungla primaria: “non c'era niente di simile, per quanto ne sapevo, al di qua delle Alpi, e nemmeno nelle Alpi stesse; niente del genere più vicino della Russia…”. E ancora, prosegue nella sua descrizione attribuendole 

Nonostante lo sfruttamento intenso a cui fu sottoposto, insieme a gran parte del territorio silano, il Monte Gariglione ospita ancora una delle faggete meglio conservate dell’Italia meridionale, oggi tutelata entro i confini del Parco Nazionale della Sila e della Rete Natura 2000 regionale.
Al faggio si trova associato l’abete bianco, che qui si presenta ancora con esemplari secolari che svettano oltre la copertura pressoché continua della foresta e che, a tratti, domina formando abetine dense e ombrose. E poi, ancora, ci si imbatte in esemplari altrettanto maestosi di pino laricio, acero o rovere sfuggiti ai tagli intensivi del secolo scorso e testimoni di quella foresta lussureggiante e maestosa che era apparsa agli occhi del viaggiatore inglese.
Foresta, il cui sottobosco ospita una florula ricca di specie di interesse biogeografico, che agli occhi attenti di un esperto racconta la storia complessa e affascinante delle montagne calabresi e della loro flora, con elementi boreali spinti al loro limite meridionale durante le glaciazioni, specie appennino-balcaniche e relitti terziari.
Quanto sto per narrarvi è l’incrocio fantastico fra ciò che ho visto e ciò che ho letto.

L’escursione – il libro

Partendo in macchina dal bivio Spineto nella Sila Piccola e attraversando Buturo e Tirivolo, si giunge alla Caserma della Forestale: da qui ha avuto inizio l’escursione. Il percorso è ad anello, è lungo poco più di 16 km, il dislivello è di circa 600 m, si svolge fra sentieri in bosco, carrarecce, sterrate.
L’area che si attraversa è tra le più belle e ricche di naturalità e si snoda nello scenario di secolari faggete, abeti e pini larici, che si alternano a verdeggianti valli e praterie. È uno dei luoghi riconosciuto con l’aria più incontaminata d’Europa. Parte in mezzo al bosco, parte su un vecchio sentiero si sale fino alla cima e alle anticime, poi si arriva a Pietrascritta, chiudendo l’anello alla Caserma, dopo essersi dissetati alla fontana della Marchesa e passati dalla casa di Mamma Giuseppina.

La fontana della Marchesa è nella Macchia dell’Orso – la parte alta del Gariglione – e deve il suo nome alla marchesa De Seta che – come ci ricorda Belcastro - agli inizi del ‘900 cercò nella foresta della Sila aria salubre per il figlio malato. E Belcastro ci ricorda anche che il toponimo Mamma Giuseppina sostituì l’antico Terra ‘e Pagliaru dopo che Giuseppina Carvelli e la figlia di quattro anni perirono in un tragico incendio dentro una tenda militare.
Pietrascritta è ben altro che un grosso masso: ha incise sul granito le date del 1633 e del 1755, come fa rilevare Francesco Cosco dell’Associazione culturale le Madie (saggio breve, blog del 2013), e l’iscrizione RS, il cui significato è Regia Sila. Pietrascritta, al pari di altri massi, delimitava i confini della Sila in quanto appartenente al Regio Demanio. Occorre ricordare che la distinzione delle aree silane, prima ancora che fra Sila Grande e Sila Piccola, era fra Sila Regia, ovvero di dominio regio sin dai tempi dei Normanni, e Sila Badiale, ovvero appartenente all’Abbazia florense di San Giovanni in Fiore.

Originariamente, tutto il territorio silano era un’unica vastissima area sulla quale gli abitanti esercitavano gratuitamente gli usi civici. Le terre concesse dai vari sovrani, anche quelle date alla Chiesa, restavano comunque demaniali e le concessioni non erano intese come alienazioni. Gli occupanti abusivi più volte avevano richiesto alla Corona il possesso delle terre, mai concesso, ma veniva loro confermato il diritto di superficie con l’obbligo di pagare la fida (tassa sul pascolo degli animali) e il giogatico (tassa sui buoi adoperati per la semina), come ci ricorda L. Chinigò (data incerta).

Le incisioni sui massi sono probabilmente antecedenti al regno di Ferdinando I di Borbone (fine del XVIII secolo), che diede incarico di reintegrare al Demanio regio i territori occupati, di pertinenza dei comuni silani e dello stesso Demanio. Né la vicenda trovò la sua definitiva conclusione nel periodo francese (inizi del XIX secolo) quando le terre demaniali soggette a usi civici vennero suddivise tra baroni e Comuni, con l’obbligo, per questi ultimi, di fissare le quote da assegnare ai cittadini poveri (cfr. ancora L. Chinigò). Negli anni successivi all’Unità d’Italia, la questione fu data in mano al neo istituito Collegio arbitrale per gli Affari della Sila. Mi fermo qui, la narrazione ci porterebbe troppo fuori dalla nostra trama.
Torniamo al vecchio sentiero: lastricato in più parti, si scorgevano evidenti i segni del passaggio dell’uomo e non erano naturali i lastroni, che suggerivano qualcosa che sapeva di storia a cavallo fra l’uomo e la natura.

Eravamo in cammino già da alcune ore, la parte più dura dell’escursione l’avevamo alle spalle, ci aspettava un rientro abbastanza agevole, reso ancor di più tale da un vecchio e ampio sentiero, comodo, con pendenze dolci, a mezza costa, occupato per una buona metà della sezione trasversale dai resti di una massicciata, in più parti regolare e comunque continua. Una massicciata diversa da un ballast ferroviario, formata non da ghiaia (forse ci fu un tempo, ma non ne trovammo traccia) ma da veri e propri massi appiattiti e accostati e ben ancorati al suolo, una specie di pavimentum romano.

C’era, all’epoca in cui Belcastro abitava alle sorgenti del Tacina, una ferrovia boschiva Decauville che portava i carri carichi di tronchi da più parti fino alla stazione di Differenze, seguendo una mappa di cui solo in parte si sono perse le tracce. 
La mappa! Ma certo, la mappa è quella del libro di Belcastro, ricostruita con mano di cesellatore rinascimentale e con penna di monaco certosino.
E la continuità di quei resti, in un contesto di natura all’apparenza selvaggia e restituita alla sua secolare quiete, ci dava suggestioni e ci suggeriva che proprio da lì era passata la modernità. Fino a quando uno di noi tirò fuori quella storia lontana di ferrovie Decauville, di vecchie concessioni a ditte tedesche di deforestazione, di falegnamerie industriali per la costruzione di traversine ferroviarie. 

Ma sì, stavamo dunque camminando sul vecchio percorso della ferrovia che andava da Tirivolo a Differenze. Certamente, e di lì a poco avremmo trovato i resti della teleferica che scendeva giù giù a valle fino a Mesoraca e da lì, poi, in treno i tronchi già semilavorati venivano caricati su lunghi e sbuffanti treni merci! Non c’era alcun dubbio, eravamo sul percorso della vecchia ferrovia e occhi attenti, fra di noi, cominciavano a dissotterrare piastrine metalliche, vecchi chiodi arrugginiti e pezzi consunti di traversine. 
Finché, giunti all’ampio pianoro di Differenze, ecco i resti della stazione di monte della teleferica!

La Gariglione – Differenze era una ferrovia forestale Decauville, con trazione a vapore che andava da Tirivolo a Differenze, da dove aveva inizio una teleferica che giungeva alla stazione ferroviaria di Mesoraca sulla ferrovia Crotone - Petilia Policastro delle vecchie Ferrovie Calabro Lucane.
Le ferrovie Decauville (rielaborazione da informazioni e immagini desunte da Wikipedia) sono ferrovie a scartamento ridotto, il cui binario è formato da elementi prefabbricati che possono essere montati e smontati velocemente. Sono tuttora impiegate nel trasporto di prodotti di miniera,  di legno, torba, argilla e sabbie. 

Tradizionalmente, erano caratterizzate da binari leggeri posati con poca cura e da treni formati da vagoni a due assi con cassa a sezione a V, basculante sui due lati, per lo scarico del materiale. Le ferrovie Decauville ebbero un utilizzo esteso nell'industria del primo ‘900, per il trasporto sia all'esterno sia all'interno degli stabilimenti industriali. 
Gestore della ferrovia del Gariglione era la Società Forestale Meridionale (So.Fo.Me.), la ferrovia fu attivata nel 1928 e raggiunse una lunghezza massima di circa 40 km in diversi rami, era a scartamento ridotto, la trazione era assicurata da locomotive a vapore a due assi alimentate a legna con fumaiolo a cono rovesciato parascintille. I carri erano pianali, di tipo semplice, in ferro.
Tutti i boschi della Sila – e la foresta del Gariglione non fa eccezione – sono stati sfruttati sin dall'antichità per il legname delle faggete e delle conifere.
Il bosco del Gariglione appartenne al Demanio fino al 1876, allorquando alcuni territori furono venduti dallo Stato ai comuni oppure a privati. Già all’inizio del ‘900, una ditta tedesca si assicurò la concessione di sfruttamento eseguendo vari lavori, poi interrotti a causa della prima guerra mondiale. Lo sfruttamento del bosco riprese poi negli anni ’20, quando la So.Fo.Me. si assicurò il diritto di sfruttamento del legname a livello industriale, costruendo le infrastrutture necessarie.

La costruzione della ferrovia e della teleferica fanno parte di quel progetto. La teleferica iniziava a quota 1573 m s.l.m. in località Differenze e trasportava il legname fino alla località di Foresta, piccola frazione di Petilia Policastro (Foresta è il nome che ha poi sostituto il vecchio So.Fo.Me.), a 310 m s.l.m., dove sorse un grosso villaggio di boscaioli. Erano tante a quei tempi le segherie che trasformavano i tronchi in traversine per i binari ferroviari, impiegate in Italia e in tutta Europa.
Negli stessi anni, le Calabro Lucane stavano costruendo la ferrovia Crotone-Petilia Policastro, nella cui stazione di Mesoraca avveniva il carico sui carri per il trasporto del legname fino al porto di Crotone. 

Il lavoro di disboscamento continuò fino alla seconda guerra mondiale e i binari vennero prolungati raggiungendo via via le nuove aree di lavoro. 
La ferrovia forestale cessò la sua attività all’inizio degli anni cinquanta.
L’archeologia potrebbe oggi recuperare questa bella pagina di forte connubio fra natura e industria.

Ringrazio gli amici Carmen Gangale per il suo prezioso contributo sugli aspetti botanici e letterari dell’escursione e Daniel Gullì per avere con me condiviso l’organizzazione dell’escursione definendone i particolari.

Paolo Veltri