Antiche liturgie ad Alessandria del Carretto

C.A.I. SEZ. CATANZARO
Il carnevale di Alessandria del Carretto © Mario Greco

È un mezzogiorno di febbraio e di montagna. Un mezzogiorno di sole in un cielo terso che è dispetto e scherzo dell’inverno. Alessandria del Carretto è lassù, accovacciata al tepore dei suoi mille metri. Circondata dalle vette del
Pollino che sembrano ragazze con la nuca appena ingrigita da aliti accennati di neve.

È domenica di festa. Tra poco avrà inizio la vestizione de i Połëcënëllë biëllë e i Połëcënëllë bruttë, le maschere di un carnevale diverso, ricco di significati e significanti simbolici, gli avamposti di un’identità che non si arrende.
A dispetto di una modernità che omologa e fagocita tutti. A dispetto di una dimenticanza, di uomini e luoghi, che Vittorio De Seta immortalò in uno dei documentari antropologicamente più spinti ed evocativi del ‘900. A dispetto di un mondo che, appena varchi la soglia d’ingresso, ti rapisce.

Alessandria del Carretto è una terra di confine. La Lucania dista, mi dicono, appena 500 metri. È da lì che portano l’albero per la festa della Pita. A dimostrazione che le siepi sono solo invenzione degli uomini. Alessandria del Carretto della terra di confine ha solo i pregi e i privilegi. Una lingua creola che non respinge, ti cerca, invece, e t’intenerisce.

Adesso, sento parlare pure gente di Bari, di Taranto e una coppia di inglesi. Lei chiara e delicata come una delle Połëcënëllë biëllë, lui più severo e con la barba scura come una delle Połëcënëllë bruttë. Quando incontri un paese e la sua festa, ti senti un estraneo. Temi di profanare un affetto, un’intimità nascosta. Ad Alessandria del Carretto non è così.

La sua gente ti accoglie, e non ti scruta. Qui non ci capiti per caso, ci devi venire apposta. Non puoi essere un nemico o un predatore. La gente di Alessandria del Carretto lo capisce ed è gente buona. È gente di montagna. Calli sulle dita, cicatrici sugli zigomi, e un cuore che è una ghianda di mosto e di miele. La festa è bellissima, una danza continua, l’epitome di un rito greco che attraversa l’eternità per farne carezza di Dio.
È l’incenso di una messa vespertina e di un camino che ti accompagna tra i tuoi dubbi e i tuoi desideri.

Una delle maschere del carnevale © Mario Greco

Le nostre vite, si sa, sono avvinte da un filo rosso. Lo devi solo scovare. Lui ti cattura annidandosi ai tuoi tanti ieri e ti porta dove vuole. Nel recinto di un pomeriggio in compagnia de i Połëcënëllë biëllë e i Połëcënëllë bruttë è un’altra cosa. Ti senti ricco per aver assistito a un rituale antichissimo eppure nuovo. Ti senti perduto, come i tanti paesi che in Calabria stiamo perdendo. Immemori e irresponsabili. Incapaci di comprenderne la ricchezza di uomini e saperi, di respiri e sguardi. Di vita e di morte.

Si è fatto buio, ormai. Scende dalla montagna il verso di un freddo che perdona. Non scintilla sulle guance e non sincopa il respiro. Cerne solo il rimpianto di dover andar via. Il rimpianto di tornare e di pensare, tra le curve che mi separano da Trebisacce, a quanto diversa sia la Calabria. A quanto sia generosa della sua bellezza. E, però, a quanto sia drammaticamente inesplorata. Dove sei? Mi chiedono in tanti, vedendo i video che ho postato suo social. Alessandria di cosa? Ma in che regione ti trovi? 

Sono qui, faccio io con un moto di orgoglio. Soltanto qui. Soltanto e sempre qui. Rispondo, a una distanza da casa che è appena la metà di una mattina su un raccordo anulare o su una tangenziale controvento. Sull’orlo perlato della mia terra e della mia montagna. Sono qui, a raccogliere i pezzi del mio pentimento per non vivere i miei, i nostri Dimenticati, per non condividerne la resistenza.
Sono qui da tante ore. E, anziché tornare, con la mente cammino ancora per le vie di questo paese che mi ha aspettato dopo le fatiche sulla schiena di ombra e clorofilla fra le ninfe del Pollino.

Il freddo ammonisce ma non cedo. Mi piace ascoltarlo, mentre il respiro s’infrange sui rintocchi delle luce della sera. Tra la chiesa matrice che è una bomboniera di ricordi e di profumi. Rallento e osservo gli angoli di questo paese, i suoi volti, gli stipiti dei suoi bar di frontiera e dei suoi antichi mestieri. È questo che mi piace e mi lusinga, con un aroma dolcissimo e morbido.

Non so perché, ma questo pezzo di paese, dorato dalla luce calda di un lampione austero come una guardia svizzera, mi tiene in ostaggio, e mi commuove. Faccio il giro due volte e, al secondo, mi fermo, e lo immortalo. Forse, perché è una scheggia di ieri che rallenta il presente. O, solo, perché restituisce i ricordi di una piccola agorà, fatta di tante piccole liturgie
quotidiane.

Altro scatto dal carvevale di Alessandria del Carretto © Mario Greco

Il nostro è un tempo baro. Adula. Ci esercita alla corsa, anzi la impone. E noi, come tanti burattini, a stargli dietro. Inghiotte i nostri sciocchi affanni, e i nostri anni. Sempre più vuoti, e uguali. Sudati, senza sapere dove andiamo. Corriamo come baccanti perdute. Orfane di sentimenti e di famiglie. Ci sono gesti inconsapevoli. Riti ancestrali. Esercitazioni autoctone. Nessuno le riesce a spiegare. Né sa spiegare perché. Perché nascano. E perché si mantengano. Contro il tempo e contro le generazioni.

Loro, i Połëcënëllë biëllë e i Połëcënëllë bruttë, queste liturgie della memoria, non custodiscono solo i fasti del costume. Sono semplici e intramontabili didascalie del quotidiano. Nicchie del rispetto fra gli uomini,
della loro fede e della loro castigata dignità. Nicchie degli scongiuri per l’inverno passato, della fecondità augurata alla primavera che arriva. E di quella domanda che mi porto dentro, sino al profumo della federa pulita della domenica.

E se ti chiederanno dove sei stato? Dirò di non saperlo. Ciò che conta è solo il nostro andare. Perché siamo passi, siamo eterno, siamo storie. E domani cosa ricorderò? Ricorderò i mille volti che ho incrociato e che, anche muti, mi hanno raccontato una storia bellissima, la loro. E ricorderò ancora. L’ostinato cammino lungo il crinale disadorno e ricchissimo della cultura popolare e un aroma dolce di fumo, mosto e pane. Che, anche ieri ad Alessandria del Carretto, mi ha detto che non c'è profumo più buono di quello di un paese e di una montagna in festa.

Felice Foresta