WALTER BONATTI

Il 22 giugno di novantaquattro anni fa nasceva l'ultimo alpinista "eroico".

Walter Bonatti © Archivio Walter Bonatti - Museo Nazionale della Montagna

Il 22 giugno 1930 nasce Walter Bonatti, l’ultimo alpinista “eroico”. La verità è che un eroe esiste in un tempo di eroi, e non è il personaggio a scegliersi il ruolo, ma il mondo a sceglierlo per lui. L’alpinista Bonatti si è affermato nel secondo dopoguerra, quando la gente aveva un gran bisogno di modelli per sperare, e anche se non credeva più nel vecchio mito degli alpini a sentinella delle frontiere, voleva credere ancora con tutta l’anima nel sapore forte delle montagne e dei montanari, nel valore dell’uomo che sa imporsi sulla natura selvaggia, nelle imprese che richiedono coraggio, dedizione e speranza, per identificarsi.

Bonatti vestiva alla montanara: scarponi, ghette e duvet imbottiti. Se Messner è riuscito a essere Messner anche in scarpe da città e giacca bianca da presentatore, fino a Bonatti e Desmaison ci volevano i grossi scarponi di cuoio, e più pesavano meglio era. Le interviste riuscite, i giorni grandi, i ricordi indelebili calzano scarponi mangiati dalle morene e indossano ghette alte al ginocchio, segni rustici e maschili, metafore di adesione al gelo, al selvatico. Sopra i pantaloni alla zuava e i maglioni di lana grezza, Bonatti e Desmaison indossavano il duvet di piuma, gonfio come il collo dei galli in amore, e per emulazione nel duvet ci sentivamo tutti più alpinisti. Il duvet era la divisa dentro la quale l’ego si sentiva sicuro.

L’alpinismo di Bonatti era misterioso. Sapere e non sapere era il sale delle sue avventure. Sparire e ricomparire, come per prodigio. Dopo Bonatti e soprattutto dopo Messner, che resterà nella storia come l’ultima leggenda dell’alpinismo che precede l’avvento di internet, quando ancora si lavorava di immaginazione, il mistero è stato tritato nel frullino del mercato degli exploit e svelato dalla macchina onnipresente dei media, che oggi spettegolano tutto in tempo reale, tanto che al pubblico manca la fantasia per sognare.

Le più grandi scalate di Bonatti erano invernali e solitarie, dove non c’era nemmeno un compagno a testimoniare. Risaltano il pilastro del Petit Dru nel 1955, dopo le frustrazioni del K2, e la parete nord del Cervino dieci anni più tardi, alla fine della carriera alpinistica, quando ormai Walter era un personaggio famoso, invidiato, amato, odiato, sempre sotto i riflettori. Con una delle imprese più mediatizzate degli anni Sessanta, in cui la febbre della notizia stride con la clausura dell’uomo solo, in pieno inverno ha aperto una via difficile a destra della classica dei fratelli Schmid: la diretta. È uscito dagli schermi per alcuni giorni per ricomparire accanto alla croce di vetta, mentre salutava con la mano l’aereo che l’aveva spiato in parete. “Mi sembra di essere un personaggio biblico – scriveva a freddo ne ”I giorni grandi” – condannato, per i suoi peccati, a salire eternamente. Verso le tre del pomeriggio, quando mi trovo a soli cinquanta metri dalla vetta, improvvisa e splendente, appare la croce. Il sole l’illumina da sud e la rende incandescente. Rimango quasi abbagliato. Penso alle aureole dei santi. Gli aerei che mi hanno assordato con il loro rombo, sembrano intuire la solennità del momento. Forse per discrezione, si allontanano per un po’ e mi lasciano percorrere gli ultimi metri in silenzio, completamente solo. Come ipnotizzato, stendo le braccia verso la croce, fino a stringere al mio petto il suo scheletro metallico: le ginocchia mi si piegano e piango». Con lui la croce del Cervino diventa un’icona popolare.

Su proposta del ministro dell’Interno, il presidente Saragat premia con la medaglia d’oro al valor civile “l’epica impresa che suscita la commossa ammirazione del mondo intero e l’orgoglio della Patria”, scorgendovi un “simbolo della superiorità dello spirito dell’uomo sulle forze materiali”. I giornali discutono se sia giusto o sbagliato attribuire onori a un’impresa priva di ricadute sociali e un cittadino risponde a nome di tutti, o quasi: “…una madre si uccideva con i figli, un padre sterminava la famiglia, si dibatteva il processo per lo scandalo della sanità, la gente rubava, bestemmiava, fornicava. Invece un uomo si gettava tutto dall’altra parte: a un’impresa inutile, temeraria, assurda, poetica. Qualche conforto ce l’ha dato, non può non avercelo dato”. La retorica mostra che Bonatti è stato l’ultimo eroe del tempo eroico, prima che il Sessantotto spazzasse per sempre certi valori e cambiasse anche il volto e la funzione degli alpinisti. Suo malgrado ha impersonato la forza di volontà del dopoguerra e la fiducia di un mondo sfuggito all’angoscia attraverso il sogno, lanciato senza dubbi verso lo sviluppo illimitato dell’economia, della tecnica, della produzione. Poi è cambiato tutto.

Walter Bonatti © Archivio Walter Bonatti - Museo Nazionale della Montagna