Venti anni senza il Miro

Il 3 settembre del 2001 ci lasciava Casimiro Ferrari, “l’ultimo re della Patagonia”.Lo ricordiamo oggi nelle parole di altri grandi alpinisti e compagni di scalata
«Chi era per me il Miro? Una persona stupenda. Non sto parlando dell’alpinista, ma dell’uomo, che è stato un grande, anche a prescindere dalle cose strepitose che a fatto in montagna». Questa la testimonianza del trentino Ermanno Salvaterra, che, come Casimiro Ferrari, è stato uno dei protagonisti assoluti dell’alpinismo patagonico.
«La prima volta che lo incontrai a El Chalten», continua Salvaterra, «non sapevo chi fosse. Non ricordo bene di cosa parlammo, di sicuro non di alpinismo, forse della nostra comune passione per la Patagonia, con i suoi infiniti spazi e la sua natura selvaggia. Rimasi affascinato da quell’incontro e solo più tardi scoprii che quello con cui avevo parlato era lo scalatore che aveva realizzato la prima salita della parete ovest del Cerro Torre, quella della est del Fitz Roy e infinite altre avventure estreme».
Le parole di Salvaterra riecheggiano curiosamente quelle di Walter Bonatti, che, nella prefazione al libro Casimiro Ferrari - L’ultimo re della Patagonia, rievoca un incontro con Ferrari presso la sua estancia di Punta del Lago, ai piedi della Cordillera, e l’emozione con cui quest’ultimo gli mostrava un enorme cespo di lattuga, frutto del suo lavoro di agricoltore, esibito con lo stesso orgoglio con cui avrebbe potuto presentargli la relazione di una grande prima salita fra il granito e il ghiaccio delle vette australi. Non è un caso. Non si può comprendere l’alpinista Casimiro Ferrari senza conoscere l’uomo e il suo amore infinito per quella terra lontana. Era l’ultimo rappresentante di una specie in via di estinzione, un pioniere, un esploratore e un avventuriero, capitato per uno scherzo del destino nel XX secolo, in un’epoca in cui ormai quasi tutto era stato esplorato. La Patagonia era (e forse è ancora in parte) l’ultima frontiera, uno dei pochi luoghi al mondo dove uno spirito come il suo poteva trovare la propria identità.
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Casimiro Ferrari sull'Alpamayo © Archivio Ragni della Grignetta

Dalle Grigne alla Patagonia

Era nato il 18 giugno del 1940 a Rancio, uno dei rioni a monte della città di Lecco, ed era per molti aspetti un tipico esponente di quella classe operaia locale che nell’alpinismo trovava una via di realizzazione di sé. Una via che Casimiro aveva seguito sin laggiù, alla fine del mondo. Per oltre un ventennio le montagne del Sud America erano state il suo regno e il teatro delle sue strepitose ascensioni. Citarne alcune è utile per comprendere l’impressionante durata della sua parabola alpinistica: il Monte Buckland nel 1966, lo Jirishanca nel 1969, la ovest del Cerro Torre nel 1974, l’Alpamayo (1975), la est del Fitz Roy (1976). Poi il pilastro nord est del Cerro Murallón nel 1984, quando già i medici chi avevano diagnosticato quel male incurabile che avrebbe dovuto dargli solo pochi mesi di vita e con il quale, invece, lottò fino al 2001. Casimiro è stato anche questo: un mistero della scienza medica. Ma per chi lo ha conosciuto c’è poco di misterioso: il Miro non aveva ancora finito di percorrere la sua strada. C’erano ancora altre “prime” da portare a compimento: la parete est Cerro Norte (1986), il remoto Riso Patrón (1988), la est dell’Aguja Mermoz (1994) e la nord ovest del Cerro Piergiorgio nel 1995, l’ultimo sogno incompiuto e lasciato in eredità alle giovani generazioni del Gruppo Ragni, di cui ha sempre vestito con deferenza il famoso maglione rosso. Le cose che ha fatto sono state una risposta alla sua infinita ambizione, ma sempre nell’ottica e nei valori di quell’alpinismo di gruppo in cui era cresciuto, cercando di restituire ciò che la tradizione in cui si era formato gli aveva dato, diventando spesso e volentieri un talent scout, capace di scovare e formare nuovi giovani talenti nel sempre ben fornito vivaio dell’alpinismo lecchese.
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Sul Cerro Torre nel 1974 © Archivio Ragni della Grignetta

Il ricordo di Mario Conti

Casimiro comprendeva bene l’importanza di “passare il testimone” e, guarda caso, a raccogliere la sua autorità di leader è stato proprio quel Mario Conti che con lui aveva costituito la cordata di punta sul Cerro Torre.
«Ho arrampicato poco con il Miro», racconta oggi Mario. «In pratica solo al Torre. Però mi trovavo bene con lui, c’era un grande rispetto reciproco. Ci eravamo promessi di fare qualcos’altro assieme, ma le cose non sono andate come avremmo voluto. Nel ’75 mi voleva all’Alpamayo, però ero già impegnato con la spedizione nazionale del Cai al Lhotse. L’anno successivo avrei dovuto essere con lui al Fitz Roy, ma gravi problemi in famiglia scombussolarono i nostri piani… Negli anni successivi il mio lavoro di guida alpina mi ha assorbito completamente e non abbiamo più avuto occasione di andare in spedizione assieme».
A ricomporre questa cordata promessa e mai mantenuta ci ha pensato il destino: è stata proprio la spedizione del 2008 guidata da Mario Conti a completare la via di Casimiro al Cerro Piergiorgio ed è stata la sua esperienza autorevole a guidare la crescita dei talenti delle nuove generazioni dei Ragni che, di nuovo in Patagonia, hanno trovato il loro terreno privilegiato di azione.
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In vetta al Fitz Roy © Archivio Ragni della Grignetta

Della Bordella: «Il Miro? Un uomo normale con una determinazione eccezionale!»

Fra “gli eredi” di Casimiro c’è sicuramente Matteo Della Bordella, che non lo ha mai conosciuto direttamente ma che, ripercorrendo le sue vie si è fatto un’idea molto chiara di chi fosse:
«Ho salito la ovest del Cerro Torre, quella che oggi è considerata la via di ghiaccio più bella del mondo. Ho fatto la prima ripetizione della est del Fitz Roy, che Gian Piero Motti aveva indicato come la più grande realizzazione su roccia nella storia dell’alpinismo patagonico, e sono stato al cospetto dell’impressionante pilastro del Murallón. Sono realizzazioni visionarie, decisamente in anticipo rispetto ai tempi in cui sono state compiute. L’esperienza diretta ha accresciuto enormemente la mia stima per questo grandissimo alpinista, soprattutto perché lo ritengo un uomo normale dal punto di vista delle doti atletiche, che grazie alla sua indomabile determinazione è riuscito a fare cose incredibili».
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Bivacco sul Cerro Murallon © Archivio Ragni della Grignetta

La testimonianza del presidente dei Ragni

Di questa speciale dote di Ferrari parla anche Luca Schiera, il giovane presidente dei Ragni, anch’egli scalatore di grande talento, innamorato dell’alpinismo esplorativo:
«Quello che Casimiro ha rappresentato per il nostro gruppo e per l’alpinismo internazionale è lì da leggere, nei libri di storia. Io l’ho conosciuto cimentandomi con alcune sue vie e nei racconti di chi ci ha scalato con lui. Attraverso queste testimonianze ho compreso, e ho anche cercato di fare mia, quella che probabilmente era una delle sue più grandi qualità: la determinazione con cui riusciva a salire le grandi pareti della Patagonia».
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In vetta all'Alpamayo © Archivio Ragni della Grignetta

Il bianco e il nero...

Fare un racconto tutto “in bianco” però non renderebbe giustizia alla complessità del personaggio. Casimiro era anche il nero, l’oscurità del suo carattere difficile, anzi terribile. Le sue sfuriate improvvise e incontenibili sono diventate proverbiali nell’ambiente. Erano tempeste capaci di terrorizzare e addirittura portare alle lacrime i più rudi compagni spedizione, gente abituata alla rabbia e agli insulti delle bufere delle montagne più difficili del mondo. Forse il profilo più completo di lui lo ha tracciato Giuliano Maresi, suo compagno in diverse salite, con queste poche ma chiarificatrici parole:
«Il Miro era esattamente come la Patagonia. Quando era arrabbiato ti faceva tremare di paura. Ma quando era sereno era capace di ispirarti, di rivelarti orizzonti magnifici e farti sentire nel posto più bello del mondo».