Una testimonianza diretta dell'intervento nella grotta della Morca in Turchia

Abbiamo raccolto il racconto a freddo di Romeo Uries, soccorritore speleologico e infermiere che ha trattato l'americano Mark Dickey ai - 1000 metri della grotta turca.

Romeo Uries si è trasferito in Italia dalla Romania nel 2004. La passione per la speleologia è stata un modo con cui inserirsi nel nostro paese; per un infermiere di professione l’ingresso nel Soccorso Alpino e Speleologico nel 2012 è stata la naturale conseguenza. Mercoledì 6 settembre ha fatto parte della prima squadra di soccorritori partiti dall’Italia per raggiungere la grotta della Morca in Turchia dove lo speleologo americano Mark Dickey era bloccato da tre giorni a quota – 1000 per le conseguenze di un grave malore. La sua esperienza di esplorazione ipogea con all’attivo diverse spedizioni a – 1000 e una punta a – 2000, insieme alle competenze sanitarie sviluppate lavorando quotidianamente nel pronto soccorso dell’ospedale di Verduno (CN) lo rendevano uno dei tecnici più adatti per questo tipo di missione

 

«Innanzitutto ci tengo a non passare come un eroe – esordisce Uries dimostrando di aver interiorizzato la tipica sobrietà piemontese – perché ciò che siamo riusciti a fare in Turchia è frutto di uno straordinario lavoro di squadra che ha coinvolto speleologi provenienti da tutta Europa». 

Una fase di movimentazione della barella durante le operazioni di soccorso nella grotta della Morca, Turchia.

Come è avvenuta la partenza per la Turchia? 

«Quando le squadre italiane sono state attivate, sentivo di avere la preparazione giusta per intervenire in quel contesto e, soprattutto, ho ricevuto pieno supporto dal mio primario e dall’ospedale che mi hanno autorizzato a lasciare la struttura per un numero di giorni che in quel momento appariva indefinito. Il 6 mattina, con un compagno piemontese, il volo per Istanbul dove abbiamo raggiunto altri 3 soccorritori italiani tra cui la dottoressa Cristiana Pavan, medico anestesista delle Marche, con cui ho condiviso tutto il resto della spedizione. Poi un secondo volo fino ad Antalia e un lungo trasferimento in fuoristrada fino al campo base allestito all’imbocco della grotta, dove siamo arrivati a tarda sera. Nel primo pomeriggio di giovedì 7 settembre siamo entrati con quattro grandi sacche di attrezzatura e in circa 7 ore abbiamo raggiunto l’infortunato». 

 

Che situazione avete trovato? 

«Una squadra di soccorritori e una dottoressa ungherese erano già con lui e avevano allestito una tenda dove erano iniziate le prime terapie e alcune trasfusioni. Ma la notte dopo che lo abbiamo raggiunto, ha avuto una seconda fase critica acuta, uno choc emorragico, che ci ha messi a dura prova». 

 

Che sintomi aveva e come avete operato? 

«Dickey presentava un’evidente emorragia nell’apparato digerente che gli provocava abbondante sanguinamento. Ma senza la possibilità di praticare esami diagnostici non eravamo in grado di capire con precisione l’origine e la natura del problema quindi abbiamo dovuto inventarci una terapia molto empirica per ridurre la perdita di sangue reintegrando con trasfusioni. Nel caso di incidenti traumatici è più facile prevedere un’evoluzione delle condizioni del paziente. In una situazione del genere potevamo soltanto gestire le varie emergenze che si presentavano, e attendere». 

 

Avete temuto di perderlo? 

«Quella prima notte, sì. Era un paziente che in ospedale sarebbe finito dritto in sala operatoria. Tutti i fattori esterni erano contro di lui, dalle basse temperature all’acidosi che le sue cellule avevano sviluppato. Io e Cristiana, con gli scarsi strumenti che avevamo a disposizione in una grotta a meno mille metri, abbiamo proseguito incessantemente le terapie anche grazie al supporto che ricevevamo dall’esterno, con cui eravamo collegati grazie a una linea telefonica via cavo installata dalle squadre tecniche. Per fortuna il buono stato fisico generale di Dickey gli ha consentito di superare la crisi e il sanguinamento si è ridotto». 

I soccorritori speleo del CNSAS al lavoro nella grotta della Morca, Turchia, durante il salvataggio dell'americano Mark Dickey. © CNSAS

Quando è iniziato il trasporto verso l’esterno? 

«Il trasferimento della barella è iniziato il 9 settembre intorno alle 15 perché fino a quel momento occorreva aspettare che le condizioni di Dickey migliorassero consentendogli una movimentazione che lo avrebbe sottoposto a ulteriore disagio e stress. L’obiettivo era raggiungere un campo allestito dalle squadre tecniche a – 680 metri. Siamo arrivati lì intorno alle 8 del mattino seguente effettuando alcune soste che consentissero a me e Cristiana di monitorare le condizioni del paziente. Poi abbiamo effettuato ancora una trasfusione di plasma e, infine, lo abbiamo consegnato alla squadra successiva che ha iniziato il trasporto lungo il tratto più difficile fino a – 500 metri. A quel punto io e Cristiana ci siamo riposati per qualche ora e poi siamo ripartiti in autonomia verso l’uscita». 

La prima squadra italiana entrata nella grotta della Morca, Turchia, per il salvataggio dell'americano Mark Dickey. Al centro la dottoressa Cristiana Pavan e, dietro di lei con il casco rosso, Romeo Uries. © Archivio CNSAS

Cosa hai fatto, appena tornato in superficie? 

«Ho subito chiesto una fetta di anguria che ho divorato con avidità. Durante il periodo trascorso con il paziente non avevo avuto la possibilità di idratarmi, di mangiare correttamente e, ovviamente, di riposare per cui il percorso di risalita è stato molto faticoso. Il primo desiderio è stato qualcosa di dolce e dissetante da mangiare. Poi sono partito per raggiungere un’altura a 40 minuti a piedi dove prendeva il telefono per avvisare mia moglie che stavo bene. Era molto in pensiero perché non aveva più ricevuto mie notizie da quando ero entrato in grotta». 

 

Per la cronaca, nella notte tra l’11 e il 12 settembre, Mark Dickey è uscito dalla grotta ed è stato trasferito in ospedale dopo 9 giorni dalla richiesta di soccorso. All’operazione hanno partecipato quasi 200 persone provenienti da 9 paesi, di cui 90 i soccorritori speleologici impiegati nella grotta. Il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico ha partecipato con 46 tecnici partiti dall’Italia.