Un grecista a Castelrotto

Ai piedi dell'Alpe di Siusi, sulle tracce di Manara Valgimigli, filologo e scrittore

Trascorrere una vacanza in montagna vuol dire ossigenarsi e ritemprarsi. E questo vale anche per gli scrittori che amano la montagna e ne scrivono. Accadde, tra i tanti, a Manara Valgimigli, filologo e scrittore nato nel 1876, uno dei più noti grecisti d’Italia, docente universitario e scrupoloso traduttore di poeti e filosofi antichi. Scomparso sessant'anni fa, nel 1965, si ricorda oggi meno per la figura di filologo che per l’estro dei suoi elzeviri, confluiti in alcuni libri giustamente celebrati del Novecento italiano: Il mantello di Cebète, La Mula di Don Abbondio, Carducci allegro, Colleviti.

Cominciò a frequentare la montagna verso i cinquant’anni, prima a Fusine di Zoldo, e poi dal 1931 sempre a Castelrotto, l’attraente località alle falde dell’Alpe di Siusi. I primi anni alloggiava in pensione, poi trovò in affitto un appartamento nel nucleo antico del paese, nei pressi della piazza in cui svetta il campanile. I suoi bozzetti abbandono di ricordi di montagna, e Castelrotto è il paese principe di questi ricordi, oggi raccolti nel bel volume La strada, la bisaccia e la pipa pubblicato da Lindau.

Raccogliendo da Sansoni nel 1943 una serie di ritratti di Uomini e scrittori del mio tempo, Valgimigli appose questa epigrafe: “Dedico questo libro a Castelrotto su l’Isarco che da tredici estati dà pace al mio animo e letizia al mio lavoro”. La dedica scopre una franca passione e permette anche di collocare nel tempo la sua frequentazione del luogo che, iniziata tempo prima, si protraeva in quel 1943 ancora ininterrotta. Parla inoltre di “estati”, non di brevi periodi: saliva infatti a Castelrotto a giugno e lasciava il paese a settembre inoltrato.

Il canto più alto viene elevato proprio nel 1943 – anno nel quale Valgimigli dovette sentire con particolare vigore il fascino esercitato dal luogo – nell’elzeviro semplicemente intitolato Castelrotto. Ma come avvenne che proprio quel paese cadesse nelle sue grazie? Era l’estate del 1931; cercava un luogo di villeggiatura e gli consigliarono Siusi. Ci andò, ma alla metà di settembre ecco alle finestre degli alberghi, sulle terrazze e nei cortili un gran battere di tappeti e materassi da parte di cameriere in cuffietta e camerieri in grembiale verde. Il paese chiudeva i battenti e tutti – albergatori e fittacamere – se ne tornavano a Bolzano o a Merano: iniziava a valle la stagione delle mele.

E così il buon Valgimigli era salito di pochi chilometri, e s’era imbattuto in Castelrotto, paese con una bella piazzetta antica, municipio e case in stile locale, tetti a largo spiovente, finestre e balconi fioriti di garofani o gerani, una fontana dal getto largo e un campanile altissimo, visibile gloria del paese: “sarà tozzo e rozzo e sproporzionato di altezza quanto volete, ma quel grosso cipollone verde che ha sulla cima, e la torretta e la croce dorata che luccica al sole, fa sempre compagnia e piacere seguitare a vederli per ore e ore dovunque si vada, anche lontano”.

Il posto gli piacque e ne restò conquistato, sia per i vecchi alberghi all’insegna di agnelli, cavallini e lupi, sia per le stradette acciottolate ed erbose, sia anche per le botteghe del fabbro, del sellaio, del falegname e del sarto, sopra la cui bottega prese alloggio. Si gustò il paese adagiato in una spaziosa conca verde, mille metri di altitudine e di quiete, senza nessun monte incombente, perché “chi veramente ama la montagna non può sentirsela a ridosso dalla mattina alla sera, creste picchi ghiacciai nevai con la loro prepotenza e solennità”. La montagna, infatti, bisogna cercarla quando chiama, e ogni volta riconquistarsela. E a Castelrotto la grande montagna è a due passi: l’Alpe di Siusi e le sue cime, i due Sassi (Lungo e Piatto), l’Antermòia, la Marmolada, e poi la Val Gardèna che si dona all’abbraccio del Gruppo Sella, o più di sbieco a quello delle Odle.

Ma quando si resta in paese la gioia scroscia dalla fontana e si annuncia con le campane. La fontana della piazza centrale di Castelrotto è infatti speciale: tutta acqua, acqua soltanto, e nessun tritone, nessuna ninfa. Un semplice muro di pietre squadrate e una colonna di legno da cui tre grossi tubi fanno sgorgare un getto copioso. E legato a una catenella, un bicchiere di rame per chi ha sete. La vasca trabocca di acqua lucida, come un tesoro ineguagliabile e profuso, ma anche utilissimo nemico degli incendi. Il fantoccio di legno sopra la colonna è infatti San Floriano, che nei monti protegge dal fuoco. Vicino a questa fontana si potrebbe stare ore, anche a godersi le campane che, dall’alto della contigua torre campanaria, battono i rintocchi che si spandono a ondate lente nella valle. Castelrotto è tutta qui, nei malinconici scritti di Valgimigli, che sono la migliore guida per il turista frettoloso. Affinché anche lui possa oggi godersi fontana, campane e balconi fioriti.

Manara Valgmigli negli anni Dieci del Novecento.