«Questa volta ho veramente toccato il cielo con tre dita! Più su di qui... non è possibile! 8848 metri indimenticabili!». Sono state queste le prime parole che l’alpinista pluriamputato
Andrea Lanfri ha affidato ai social network dopo aver raggiunto la vetta dell’
Everest, lo scorso 13 maggio alle 5.40 del mattino (ora locale). È stato il primo alpinista con
tutti e quattro gli arti compromessi a scalare la montagna più alta della Terra.
Classe 1986, da sempre appassionato di montagna, Lanfri dal 2015 è
senza gambe e senza sette dita delle mani a causa di una meningite fulminante con sepsi meningococcica. Le amputazioni non hanno però mai scalfito la sua voglia di vivere, e Andrea è diventato
atleta paralimpico della Nazionale italiana, oltre che
alpinista e
climber.
Sul tetto del mondo è arrivato seguendo la via normale, insieme alla guida alpina trentina
Luca Montanari. «Avevamo già fatto altre spedizioni insieme, e altre ancora ne faremo», racconta Lanfri, che abbiamo sentito al suo rientro in Italia.
«Con noi c’erano due Sherpa: Mingma Eba Sherpa e Lakpa Sherpa».
La marcia verso il campo base © Ilaria Cariello
L’acclimatamento
Partiti dall’Italia il 23 marzo, Lanfri e Montanari sono arrivati al
campo base dell’Everest dopo la marcia di avvicinamento che hanno iniziato a
Lukla. Durante il periodo di acclimatamento, i due hano raggiunto i 6119 metri del
Lobuche Est e i 5550 del
Kalapatar.
La seconda parte dell’acclimatamento si è sviluppata con la salita dell’
Ice Fall, la grande seraccata terminale del
ghiacciaio del Khumbu, con due notti trascorse a al campo 2 e con una puntata al campo 3, a 7040 metri.
I due alpinisti sono poi scesi fino al villaggio di
Namche, dove
«dovevamo trascorrere qualche giorno per riposarci e recuperare le energie», continua Lanfri. «In realtà quasi ogni giorno abbiamo effettuato delle camminate di otto-nove chilometri per arrivare ai villaggi vicini, in attesa del bel tempo e della fine della sistemazione delle corde fisse lungo la via di salita sull’Everest».
Andrea Lanfri nell'Ice Fall © Andrea Lanfri
La salita
I primi di maggio il maltempo ha scombinato i piani:
«Tutte le mattine ci dicevano di attendere un altro giorno. A un certo punto non ce la facevamo più ad aspettare, siamo ripartiti e in tre giorni eravamo di nuovo al campo base. Là le condizioni meteo hanno iniziato a migliorare e, il 9 maggio, dopo esserci confrontati con gli Sherpa, abbiamo iniziato la salita».
All’una del mattino del 10 maggio Lanfri e Montanari hanno attraversato l’Ice Fall e sono arrivati direttamente al campo 2, perché il giorno successivo al campo 1 era previsto vento.
«È stata una bella tirata di dodici ore: sette per superare l’Ice Fall e cinque per percorrere la Valle del silenzio. Comunque siamo rimasti soddisfatti dato che la prima volta, durante la fase di acclimatamento, avevamo impiegato otto ore e mezza solo per superare l’Ice Fall».
L’11 maggio i due hanno raggiunto il campo 3 e il giorno successivo il campo 4, dove sono arrivati intorno alle 14, con le maschere per l’ossigeno. Qualche ora di pausa e,
alle 19.30, i due alpinisti sono ripartiti per la vetta, che hanno raggiunto
alle 5.40 della mattina seguente, il 13 maggio.
«In vetta non c’era affollamento, quel giorno siamo stati la terza cordata ad arrivare in cima. E anche in discesa, fortunatamente, niente coda».
Lanfri e Montanari sono quindi ridiscesi al campo 4, dove hanno pranzato e dormito, per poi tornare in due giorni al campo base.
Montanari (sx) e Lanfri (dx) sulla vetta dell'Everest © Andrea Lanfri
Un’unica difficoltà durante la discesa
«Di grossi intoppi non ce ne sono stati, in vetta c’era molto vento, certo, ma il freddo era sopportabile», racconta Lanfri. «L’unico problema l’ho avuto durante la discesa, appena dopo l’Hillary Step (il tratto sotto la vetta che presenta una certa difficoltà, n.d.r.). Camminavo male, pensavo si fosse rotto un piede della protesi destra. Ne avevo con me una di riserva, ma era problematico cambiarla lì. Così ho deciso di proseguire fino a che reggeva. Sono dunque arrivato al campo 4, non senza fatica, e in tenda ho potuto appurare che la protesti non si era rotta. Semplicemente le lamine non lavoravano bene perché si era accumulato molto ghiaccio. È bastato pulirle e il problema si è risolto».
Lanfri non ha avuto particolari problemi anche per quanto riguarda la
quota.
«Anche nelle precedenti spedizioni, a 5000, 6000 e 7000 metri, non ho mai sofferto di dolori alla testa o allo stomaco. Certo, la fatica si fa sentire, ma siamo stati quasi due mesi a oltre 5000 metri, ci siamo acclimatati bene. I primi giorni al campo base, ad esempio, per andare dalla mia tenda alla tenda-bagno faticavo un po’, perché i servizi erano proprio dalla parte opposta del campo. Ma con il passare dei giorni tutto è diventato più tranquillo. In Italia, prima della partenza, non ho fatto particolari allenamenti per l’alta quota. Solo corsa e bicicletta, ma in basso».
Discorso leggermente diverso va fatto per il
cibo. Usando le protesi, Lanfri consuma parecchie energie, e la fame si fa sentire.
«Al campo base si mangiava benissimo, ho un po’ sofferto nei campi alti, dove mangiavamo sempre le solite zuppette. Per fortuna avevamo portato con noi qualche bibita. Per motivarci durante la salita, pensavamo a quelle», racconta, con un filo di ironia.
Lanfri (davanti) e Montanari (dietro) sull'Hillary Step © Andrea Lanfri
L’Ice Fall e l’Hillary Step
La nostra curiosità ricade poi su come Lanfri, da amputato, abbia superato i
passaggi più difficili della normale all’Everest.
«L’Ice Fall è divertente e “ganzo” se lo fai una volta. È un luogo davvero affascinante, mai noioso e molto vario; mi chiedevo che cosa mi aspettasse dietro ogni angolo. Attraversarlo quattro volte, due in salita e due in discesa come abbiamo fatto noi, è un po’ diverso», scherza. «Per tirarmi su, ho utilizzato prevalentemente la piccozza. Per uno come me, che deve usare solo i pollici, è uno strumento migliore rispetto alla corda. Quest’ultima l’ho adoperata solo per assicurarmi».
Lanfri ha poi superato l’
Hillary Step addirittura accelerando in salita.
«Dopo essere uscito dall’anticima, ho visto la vetta e mi sono gasato. Una cosa che ho pagato, perché negli ultimi 50 metri mi mancava il fiato».