Storie di Vie. Le linee di Angelo Dibona

Angelo Dibona è stato senza ombra di dubbio una delle figure chiave nell’alpinismo di inizio ‘900. Lui e Tita Piaz sono stati i protagonisti italiani dell’innalzamento del grado di arrampicata: si è passati dal quarto grado superiore, che era stato superato da Mummery al Grépon, al quinto e quinto superiore. Oltre confine, su queste difficoltà, si muovevano Paul Preuss e Hans Dülfer, talvolta con tecnica ed etica ben distinta.

Quando ho iniziato ad arrampicare nel settembre 2003 è scattato sin da subito l’amore per le Dolomiti. Ai tempi non sapevo nulla di storia dell’alpinismo e le vie che mi apprestavo a ripetere, spesso, erano frutto di una veloce ricerca in Google. Fu così che armati di martello e chiodi io e Luca Galbiati nel luglio del 2004 ci lanciammo con decisione nella nostra prima via. Scegliemmo la via che Angelo Dibona con Luigi Rizzi e i fratelli Guido e Max Mayer aveva tracciato sulla parete ovest del Sass Pordoi nel 1910. Un percorso lungo e tortuoso che ci richiese quasi l’intera giornata per essere superato. Eravamo alla nostra prima salita sui Monti Pallidi ma ricordo che entrambi restammo colpiti dalla data di apertura e dalla capacità di Dibona di superare una simile parete.

Sass Pordoi - Via Dibona - L11     
(foto Luca Galbiati - Archivio Sassbaloss)

C’innamorammo così di Angelo Dibona e del suo stile. Una leggenda, che si tramanda tra gli alpinisti, narra che in tutta la sua vita non abbia mai piantato più di 15 chiodi.

Alcune settimane dopo la salita al Pordoi prestammo una sorta di giuramento: avremmo ripetuto, nel giro di pochi anni, tutti gli itinerari che quest’uomo aveva tracciato. La Dibona alla Cima Grande di Lavaredo, che visitammo dopo qualche settimana, fu la conferma che avremmo dovuto mettere le mani su tutte le sue vie: un bellissimo spigolo, ancora oggi non troppo chiodato, che in alcuni punti si affaccia a picco sulla strapiombante parete nord.

Spergiurammo velocemente perché mentre ripeti una via, t’innamori di quella a fianco. Così ci vollero altri quattro anni per tornare a rimettere mano su di una Dibona. L’itinerario sulla parete sud-est alla Torre Grande di Falzarego, nel 2008, ci colpì per la sua arrampicata atletica. Restammo nuovamente a bocca aperta quando, nella parte alta della via, superammo un bellissimo diedro e un muretto molto verticale che però presentava appigli ben netti, quasi come se si trattasse di un piccolo regalo della natura. Contenti della salita scendemmo a valle e continuammo ad arrampicare inseguendo i nostri sogni.

Qualche settimana fa in Dolomiti si è svolto il Corso Istruttori Alpinismo della Lombardia. Tra le varie salite era prevista anche una con difficoltà contenute. Fu così che alcune cordate andarono a ripetere la via alla Torre Grande di Falzarego. Al rientro scambiai alcune parole con Marco Gnaccarini, che aveva esaminato su quella via alcuni allievi e mi parlò di prese scavate nel tratto finale della via. Ai tempi delle mie prime arrampicate non sapevo nemmeno cosa fossero, ma oggi non posso far altro che confermare che si tratti di appigli artificiali. Com’era passato dunque Dibona? Di certo la sua etica era ben diversa dal modificare la roccia. La risposta è contenuta nel volume Le Dolomiti Orientali – Volume 1 Parte 1 di Antonio Berti, dove a pagina 213 si legge:

Piegando leggermente verso sinistra, si giunge, salendo per altri 28 m, ai piedi di un gendarme alto 25 m, che si supera per lo spigolo strapiombante e friabile (V), e si arriva in un piccolo terrazzino quadro di circa 20 cm di lato. Da questo, con ardita piramide, si sale per parete di 4 m (resa diff. per la mancanza di appigli) e si continua poi per un camino di 18 m fino alla vetta.

Chissà se oggi la via sarebbe così ripetuta se quel muro avesse conservato la sua compattezza…

 

Dolomiti Orientali 1 - Parte 1 di Antonio Berti - Club Alpino Italiano e Touring Club Italiano
Torre Grande di Falzarego - Via Dibona     
in rosso i resti dell'ospedale militare (Foto Luca Galbiati - Archivio Sassbaloss)