29.10.2023 - - - alpinismo arrampicata cultura storia
Il Gruppo del Catinaccio è uno dei gruppi più belli delle Dolomiti. Arturo Tanesini nel 1942 durante la compilazione di Sassolungo Catinaccio Latemar, prestigioso volume della storica collana Guida dei Monti d’Italia utilizza parole poetiche per descriverlo:
E' uno dei gruppi più belli, non solo del complesso dolomitico, ma anche di tutta la cerchia alpina. La sua larghissima rinomanza è dovuta alle sue prerogative alpinistiche a alle sue bellezze naturali. La sua posizione, le numerose leggende nate fra le sue cime, le visioni classiche che offre, gli anno creato celebrità tra gli alpinisti, i turisti, i pittori e persino fra i politici. Il Catinaccio è uno dei gruppi più pittoreschi e movimentati, mancando in esso i massicci possenti e le regolarità di ossatura che si trovano nei gruppi vicini; la sua notevole smembratura e la sua costituzione complicata ma chiara, permette di penetrare facilmente fra una e l’altra e di trovare grandissima varietà di aspetti e di gite.
La Cima Catinaccio con i suoi 2981 m è la seconda vetta del gruppo e funge da spartiacque tra la provincia di Trento da quella di Bolzano. A calcarne la vetta per la prima volta, nel 1974 furono Charles Comyns Tucker, T. H. Carson con la guida François Devouassoud.
Catinaccio - Via Steger © Luca Galbiati - Archivio SassbalossLa parete che maggiormente ha attirato l’attenzione degli alpinisti è la est, che si alza verticale dai prati verdi che precipitano verso Gardeccia. É lunga 900 metri e alta tra i 500 e 600 metri. Su questa muraglia nel corso del tempo sono stati tracciati diversi itinerari, ma il più famoso e ripetuto è senza dubbio quello che Hans Steger tracciò con la moglie Paula Wiesinger, Federico Masè Dari e Sigmund Lechner dal 20 al 27 agosto 1929. La quasi perfetta verticalità della via ha fatto sì che ben presto le venisse “appiccicato” il nome di Direttissima.
Catinaccio - Via Steger - Luca Galbiati in arrampicata sul secondo tiro © Matteo Bertolotti - Archivio Sassbaloss
Quello che segue è l'articolo di Vittorio Varale, pubblicato su "La Stampa" nell'agosto del 1929, che narra l'apertura della via:
Via Steger sulla Est del Catinaccio
RIFUGIO VAJOLET - Questa è la breve ma veridica storia d'una notte passata sotto la parete orientale del Catinaccio, o Rosengarten come anche s'usa dire con parola tedesca, ch'è, quell'alta e gialla montagna che riempie l'orizzonte a sinistra di chi sale quassù al rifugio Vajolet provenendo dalla Val di Fassa, e si presenta con una parete tagliata a picco per un'altezza di 500 metri all'incirca.
E' una storia cominciata tre giorni fa, o per dir meglio tre notti fa, e conclusa stamattina; ma non è tanto la sua conclusione quella che importa anche se essa dà notizia che una 'nuova via', come dicono gli alpinisti cacciatori di prime ascensioni, è stata aperta in queste Dolomiti, quanto i fatti che ne sono stati materia, e cronaca sotto i miei occhi. Dico subito, che per me quella che conta è stata la notte di tre giorni fa, la notte che ho sentito le Dolomiti cantare.
E' un ricordo che non mi lascerà dietro per tutto il tempo che il mio destino vorrà ch'io viva. E' stata la notte che Steger, la Paula e lo studente mantovano Masé-Dari hanno trascorso legati ai chiodi sulla parete per non precipitare. Era dal mattino che arrampicavano sulla via sconosciuta, poi venne la pioggia a fermarli, dapprima rada e presto più fitta, era ancora pomeriggio ma lassù già faceva buio per le nubi che s'erano ammucchiate, mentre la roccia diventava scivolosa come sapone. Bagnati, tremanti pel freddo, non gli rimase che fermarsi, legarsi ai chiodi piantati nella roccia, e aspettare l'alba, forse al chiarore del giorno avrebbero potuto uscire dalla trappola.
Li avevamo visti partire dal rifugio così di buon'ora che appena ci si vedeva, li abbiamo seguiti col sole prima che il tempo improvvisamente cambiasse e cominciasse a piovere, abbiamo trepidato per essi col passar delle ore. Fattosi buio allora siamo scesi dal rifugio verso la valle, abbiamo traversato a destra fra i mughi, siamo risaliti pel ghiaione, eccoci sotto la parete a tener compagnia ai tre amici che mi sono fatto nei pochi giorni che mi trovo quassù.
Da Steger, che per nome è Hans, viene da Monaco di Baviera ed ha vent'anni senza aver una professione definita all'infuori di quella che gli dovrebbe dar da vivere arrampicando sulle montagne, da Hans quando stamattina gli sono andato incontro al ritorno della scalata ho sentito dire una parola - che finora avevo soltanto letta sulla Guida del Berti che è il breviario, il baedeker indispensabile per chi viene da queste parti e vuol capirci qualcosa.
Questa parola è Sesto grado - è una parola strana, vero?; è curiosa, è nuova, forse è una di quelle parole magiche, una specie di Sesamo apriti, la chiave delle porte altrimenti destinate a rimaner sempre chiuse, le porte oltre le quali c'è un mondo sconosciuto, e abitanti insoliti, una di quelle parole destinate a sommuovere sentimenti finora mai espressi eppure latenti nell'animo degli uomini, la parola che aspetta soltanto l'occasione per liberarsi - e magari fare il giro del mondo.
Questa che sto scrivendo sul tavolo piuttosto rozzo del rifugio a 2255 metri d'altitudine nel cuore del Catinaccio, è null'altro che la cronaca, dimessa se pur fedele di ciò che ho visto e sentito; altri più bravi di me verranno a renderla completa, precisa e splendente, ma per me la letteratura del Sesto grado penso che abbia cominciato in questa notte e con queste note a trovar forma - sia pur disadorna e disordinata. Penso, presumo che sia la prima volta da noi che all'infuori delle pubblicazioni specializzate si offra il racconto d'una scalata d'ordine estremo, anche se incompiuta.
Catinaccio - Via Steger - Claudia Farruggia in arrampicata sul quarto tiro © Luca Galbiati - Archivio SassbalossPer portarci sotto la parete dove i tre erano rimasti bloccati ci siamo fatto luce con la lanterna tra lo sfasciume dei sassi, ed ora eccoci sotto la muraglia, dove trecento metri in alto i tre stanno aggrappati come le rondini sul cornicione d'una casa.
- Siamo tutti bagnati - rispondono.
Un dialogo straordinario s'intreccia dal basso del ghiaione all'alto della muraglia, fra la milanese dal corpetto rosso e la bolzanina dalla pelle arsa dal sole e dal vento di tutte le Dolomiti, dal cespo bruno dei capelli sugli occhi chiari come l'acque del suo Isarco.
- Paula!
- Mary.
- Come la va?
- Benissimo.
- Hai fatto il bagno?
- Mai lavata come oggi.
- E il morale?
- Altissimo.
Sempre più spessi e pesanti il silenzio e l'oscurità, ci avvolgono, noi che siamo in basso, quelli che stanno lassù. Dalla parete cade a stillicidio l'ultimo residuo della pioggia. Dalla "Punta Emma" si stacca un sasso, sveglia l'eco della valle, poi sta. Alla destra, la "Torre Winkler" saetta contro il cielo il suo profilo tagliente come la lama d'un rasoio; sul suo capo, a mo' di diadema l'incoronano le cinque stelle del Carro. Di vivo non c'è che il tremolio della lanterna posata sulle pietre.
- Cantiamo, gli terremo su lo spirito.
Le nostre voci salgono, arrivano ai nostri amici lassù. Il terribile nemico di chi bivacca, l'isolamento, almeno questa volta non prevarrà. Forse più tardi, il gelo, la stanchezza, chissà... Ma canta.
Un'ora, due ore. La terra gira, gli astri continuano la loro eterna passeggiata nel cielo. Adesso, la Winkler non ha più la corona sul capo: una stella sola, lucentissima, le brilla in fronte sulla cuspide terminale. Ma per poco, ché le nubi ritornano, coprono ogni cosa di luce riflessa.
- Come la va?
- Sempre bene - la voce risponde dall'alto.
La lanterna s'è spenta. Tutto è nero, nero assoluto attorno e sopra di noi; non si riesce a vedere dove la parete comincia a levarsi dai ghiaioni né dove finisce.
E' allora che nella notte ci sembra di sentire inaspettato levarsi un canto. Da dove giunge, non decifriamo. Ma c'è. Riempie l'aria, viene da ogni parte, da chissà quale misterioso recesso del fatato regno di Laurino. Forse scende dalla forcella di Davòi dove, si dice, le strie del Masaré si radunano le notti senza luna, oppure dal lago di Carezza, chissà quanto scure stasera le sue acque sotto il fremito dei vecchi larici. Oppure rimbalza dai dentellati dirupi di Larsèc dal fianco opposto della valle. O è il lamento dell'infelice Conturina che nelle veglie sconsolate per la partenza del suo amore ancora si alza, dicono, dal deserto sassoso d'Ombretta sotto la Marmolada.
Non è un brontolio, duro e stizzoso; dunque non è il Tita Piaz che sogna nel suo giaciglio al rifugio; questo è il canto delle Dolomiti, le Dolomiti che cullano e confortano e incantano chi gli vuol bene, e solo per questo hanno il privilegio d'intenderne la voce, la musica arcana che scaturisce dai monti che ci circondano.
Una delle voci che cantano è maschia, grave, da basso. Sta a vedere ch'è l'Antelao, massiccio e possente e regale non c'è che lui. E quest'altra, sottile e argentina, deve venire da una guglia, che certo porta un nome femminile. La Emma? Ma no, che il Tita, satanicamente ghignando mi ha detto che la donna a cui dedicò quella vergine cima era la sguattera del rifugio, e le mancavano tre denti davanti. Allora, dev'essere il campanile Olga o il campanile Pia, laggiù lontano nelle Marmarole care al Vecellio; così li battezzò quando ci salì pel primo più di vent'anni fa lo spinoso signor Piaz, dandogli il nome delle sue figliole.
Macché, ora riconosciamo le voci. Sono di Hans e della sua ragazza. Sono essi che cantano, hanno intonato l'orgogliosa canzone dei rocciatori monachesi:
«Stolze Zinnen zu gewinnen...
«Superbe cime, per vincere voi e le rocce e i ghiacciai siamo venuti a fronte alta. Per creste e pareti noi saliamo, con la nostra gioia vasta quanto il mondo. Salve, monti! Berg heil! Se qualche appiglio è malsicuro, che importa? Per salire basta il nostro ardire».
Poi la voce si tace, arrochita. Hanno gli abiti fradici, lassù. La corda che li tiene legati s'è indurita, e li stringe forte. La testa gli pesa, gli occhi si chiudono. Reagire devono, resistere fino a che il sole risorga. Lo spirito è più che mai vivo, anche se la carne è stanca. Da quindici ore sono in parete. Come trascorre lento, il tempo del bivacco. Meno dura, fu la notte che l'anno scorso pure legati ai chiodi passarono sulla Cima Una di Sesto, quando aprirono la prima via di sesto grado sulle Dolomiti dopo la Civetta di Solleder. L'ultima sigaretta è stata fumata, passata da una bocca all'altra dei tre. Fred trema pel freddo. Paula ha le mascelle contratte, non canta più. Steger li tiene abbracciati, come a proteggerli, sono i suoi fratelli minori, lui è il primo di cordata, lui è il capo.
Poi, anche quel martirio ha fine. Dopo che l'ultima Panzone ha echeggiato dal basso a ricordare l'allegria dei vecchi soldà al segnale di sveglia al quartiere, ecco laggiù ad Oriente una strisciolina sottile spuntare da dietro la Marmolada; eccola che s'ingrandisce, scavalca il ghiacciaio, s'arrotonda, ed erompe verso il cielo con cento zampilli di fuoco. Il primo sole viene a battere sulla parete ad illuminare quel nido d'aquile.
I tre scendono a corde doppie. La partita è rimandata, non perduta. Ieri, martedì, sono tornati all'assalto, e sono riusciti. Gli s'era aggiunto un amico di Hans, viene da Garmisch, si chiama Sigmund Lechner. Il tempo s'è mantenuto bello per tutta la giornata; in vetta sono usciti che già s'era fatto scuro, e lassù hanno passato la notte, ben diversa da quella a metà parete. Così, la cordata Steger, Wiesinger, Masé-Dari, Lechner ha aperto la via direttissima sulla Est del Catinaccio. Stamattina, quando gli sono andato incontro dal versante opposto e li ho abbracciati, alla mia domanda Hans ha risposto:
- Sì, estremamente difficile, sesto grado.
Catinaccio - Via Steger - Claudia Farruggia in arrampicata sul quarto tiro © Luca Galbiati - Archivio Sassbaloss