Il tamburellare ritmico del picchio nero, così come il suo verso malinconico ed evocativo, è diventato ormai familiare a chiunque cammini nei boschi delle nostre montagne. Eppure, sino a pochi decenni fa la presenza del picchio nero era rara e i suoi avvistamenti sporadici. Perché dunque il più grande picchio europeo è tornato a diffondersi? La risposta sta nell’espansione delle foreste durante l’ultimo secolo in tutta Europa, Italia compresa. Nella nostra penisola l’estensione delle foreste aveva toccato i minimi assoluti nei primi decenni del 1900, dopo secoli di espansione della popolazione umana e delle sue attività agricole, con la conseguente deforestazione. Dal secondo dopoguerra, invece, a causa dell’urbanizzazione e della concentrazione della popolazione nelle aree urbane di pianura, molti terreni montani e collinari sono stati abbandonati, lasciando spazio libero alla naturale riespansione delle foreste, quasi raddoppiate in Italia nell’arco degli ultimi ottant’anni. Il picchio nero, strettamente legato agli ambienti boschivi, ne ha tratto vantaggio, tanto che il suo habitat potenziale è addirittura quadruplicato in alcune zone delle Alpi rispetto agli anni Cinquanta.
Il suo aumento è un’ottima notizia per numerosissime altre specie animali che dai picchi dipendono per trovare cavità in cui nidificare e riprodursi. Il picchio nero è infatti una specie chiave degli ecosistemi forestali, dato che con la sua attività di scavo nei tronchi di alberi grandi e maturi favorisce la presenza di rapaci notturni come la civetta capogrosso, di altre specie di picchi come il picchio muratore, ma anche di mammiferi come ghiro e scoiattolo. La sua capacità di scavo è straordinaria: colpisce la corteccia ad una velocità di 7 metri al secondo, sino a 12 mila volte al giorno, senza subire nessun danno al cranio, avvolto e protetto da una lunghissima lingua retrattile. Questo capolavoro evolutivo gli consente di cibarsi delle larve degli insetti che vivono nel legno, contribuendo anche al controllo dei parassiti degli alberi, e di scavare grandi cavità in cui nidificare. Queste cavità offrono riparo e luoghi di nidificazione a decine di altre specie, rendendo il picchio nero un vero e proprio “ingegnere ecosistemico”, con ricadute a cascata su tutta la complessa rete di interrelazioni delle specie che abitano le foreste.
La lezione del picchio nero illumina il fenomeno dell’abbandono delle montagne ed il calo demografico sotto un’altra luce, mostrandoci come possa anche rappresentare una grande opportunità dal punto di vista ambientale. Se da un lato il depopolamento delle aree interne pone delle sfide a livello sociale per le comunità umane, che spesso vengono viste con pessimismo per lo svuotamento dei piccoli paesi, dall’altro lato però la diminuzione della presenza umana può costituire un’occasione unica per la rinaturalizzazione ed il recupero degli ecosistemi. Attraverso il rewilding possiamo infatti consentire agli ecosistemi di ristabilire i processi e le dinamiche naturali con un basso o idealmente nullo intervento umano, ricavando benefici in termini di biodiversità e contrasto ai cambiamenti climatici.
Senz’altro il quadro che ho dipinto diventerebbe più complesso se prendessimo in considerazione quelle specie animali tipiche invece degli ambienti prativi (come l’allodola e il re di quaglie), per le quali l’avanzata del bosco rappresenta una potenziale minaccia, anche se secondaria rispetto all’intensificazione delle pratiche agricole, come l’eccessiva concimazione e l’eliminazione delle siepi. Nel frattempo, però, il picchio nero e tutte le specie che beneficiano della sua presenza ci mostrano le straordinarie capacità di recupero della natura laddove l’impronta dell’uomo si attenua: una grande lezione per il nostro futuro incerto e carico di sfide.