08.06.2024 - - - cronaca alpinismo arrampicata
Stefano Ragazzo è appena tornato da El Capitan, dove ha scalato The Nose in solitaria in circa 48 ore, bivaccando in parete. La mitica via - sogno di tanti scalatori- senza un compagno di cordata è qualcosa di davvero impegnativo, anche solamente sotto l'aspetto dell'impegno fisico. Sono 30 tiri per un totale di 870 metri, metri che raddoppiano per il climber solitario. La stanchezza per una cavalcata del genere rimane addosso per molti giorni, e la conferma arriva dallo stesso Ragazzo. «Quando sono sceso da The Nose avevo ancora una settimana di tempo prima di ripartire, ma ero così stanco di mani e piedi che non sono riuscito a fare nulla. E anche una volta che sono arrivato a casa, il letto mi ha inghiottito e solo da qualche giorno inizio a sentirmi più a posto».
Il racconto della sua avventura ha fatto il giro dell'ambiente e non sono tardate ad arrivare le manifestazioni d'affetto e le congratulazioni. «Mettere per iscritto la mia esperienza prima e sentire così tanta gente poi mi ha permesso di ritrovarmi e di prendere coscienza di quello che ho fatto. Prima ero abbastanza distrutto e non c'era molto spazio per altro in me. Ma ora ci sto ripensando ed è una bella sensazione rivivere quanto ho vissuto». Vivere in solitaria un'avventura così lunga, che per Stefano è durata 48 ore, rappresenta uno sforzo incredibile per la mente. «È un carico molto alto, perché hai molto da fare quando sei solo, sei molto concentrato. Ma devi prevedere un po' tutto, pensare un po' a tutto, sei sempre in focus. Quando scali con un compagno non è che fai affidamento su di lui, perché comunque ognuno deve sentire sé stesso e pensare alla propria parte, ma implicitamente sai comunque che - se ce ne fosse bisogno-, un aiuto potrebbe arrivare. Invece, quando sei solo, una corda che si incastra, una protezione che esce, risalire una corda, sono tutte cose che prendono un peso diverso». Lo sforzo fisico però ha pesato più dell'aspetto mentale per Stefano. «L'anno scorso mi era venuta una infiammazione ai gomiti, perché tra il lavoro di guida e lo scalare nel tempo libero su vie dure avevo davvero dato fondo a tutto. Mi sono esplosi i gomiti e questo inverno ho iniziato un po' alla volta a incrementare nuovamente, ma non ero preparato per fare 60 tiri e infatti mi sono venuti i crampi».
Sotto El Capitan © S. Ragazzo
Il mitico pendolo del Nose è stato un momento emozionante per Ragazzo. «È davvero come lo si vede anche nei video. Devi prendere un po' di rincorsa perché altrimenti sei corto. Le due prime volte però ci sono andato un po' timido, alla terza mi sono detto che non potevo stare lì tutto quel tempo e mi sono deciso a calarmi un po' di più. Comunque fa impressione vedere la corda che gratta sul granito. Sai che non si rompe, che è impossibile, ma in quei momenti c'è un po' di lotta tra razionale e irrazionale. Sul Nose c'ero già stato con Silvia (Loreggian, ndr) nel 2021, quindi conoscevo la via, ne avevo memoria, ma fatto così cambia in tante piccole e grandi cose».
Scalarlo in parte al buio è stata una novità, non affrontata nella salita con Silvia. «Mi piace scalare con il buio, per esempio quando faccio goulotte. Mi ritrovo spesso in quella condizione e comunque è qualcosa che un alpinista deve mettere in conto, deve avere nel proprio bagaglio. Comunque basta abituarsi e piano piano la vista inizia a trovare quello che serve. Qua l'idea era di partire di notte ed evitare il caldo, ma poi invece ho preferito attaccare con la luce anche perché mi ero detto che se non ce l'avessi fatta mi sarei calato. Sono andato un po' spavaldo, contavo di fermarmi un'ora o due per riposarmi. E invece quando è arrivato il buio mi sono ritrovato stanco e un po' in crisi. Sentire Silvia mi ha aiutato molto a ritrovare la fiducia necessaria».
Bivaccare senza niente appresso, vedendo una cordata ben equipaggiata ha reso però le cose più dure. «Campo 6 è un pilastro di due metri per un metro e mezzo, c'è posto, ma c'erano già due ragazze. Quindi ovviamente io ero quello più esterno e avevo solo lo zaino per metterci dentro i piedi. La roccia è roccia, è dura quando sei stanco e vedere loro messe bene...a un certo punto una delle due ragazze aveva una ventina di centimetri di materassino che spuntavano dal sacco a pelo e mi sono allungato per prenderne appena un po' e avere un po' di sollievo...».
Il mitico albero di vetta © S. Ragazzo
Di questa avventura, Ragazzo si porta dietro molto anche dal punto di vista della condivisione con gli altri climber. «Al terzo viaggio negli States posso dirlo, su certe cose hanno un approccio molto bello, per certi versi migliore del nostro. Loro si gasano da matti sia che tu faccia una grande via, sia che tu vada a fare un quinto grado. Per loro pesa il fatto che sei accomunato dalla stessa passione. Ti incitano, non stanno a pesare tutto, il valore di quello che fai. Da noi a volte vai in falesia e la gente fatica a salutarti se non hai quel grado, se non sei di quel giro. O magari in una falesia non ci vai perché è chiodata da uno che non è nel tuo giro di amicizie. Lì non esiste, al campo tutti parlano con tutti, la gente non va a rintanarsi nella propria tenda appena può. Appena vedono una corda ti parlano subito. È un bell'insegnamento».