Stefano Ragazzo ha compiuto sicuramente una delle imprese alpinistiche dell'anno, con la salita in solitaria di Eternal Flame, sulla Nameless Tower delle Torri di Trango. La sua avventura, durata nove giorni, ha avuto molto clamore anche perché il nome della guida alpina padovana non è uno di quelli spinti dai grandi marchi del settore e fino a oggi le sue ascensioni erano conosciute per lo più a una ristretta cerchia di appassionati. Eternal Flame era uno dei sogni di Ragazzo, che negli anni è riuscito a trasformare una bellissima idea in realtà.
Sul tuo diario c'erano disegnati da diversi anni El Cap e la Nameless Tower. In una estate li hai scalati entrambi. I tuoi progetti hanno davvero un lungo respiro...
È stata una cosa simpatica, perché anni fa al El Chalten un alpinista di nome David aveva dipinto sia El Cap che la Torre Senza Nome in una di quelle giornate di attesa nelle quali non puoi fare molto. Quando sono andato in Yosemite ho riletto il diario e ho visto i disegni. Ma insomma, l'ispirazione non è venuta da lì. È stata una sorta di premonizione (ride, ndr) e no, nel futuro non c'è altro, i disegni erano quei due.
Come è nata quindi l'idea di scalare Eternal Flame?
Per il tipo di scalatore che sono io e anche per come è Silvia (Loreggian, la fidanzata, ndr) che siamo due sognatori, ci siamo sempre detti che sarebbe stato bello andarci. La cosa che è scattata nell'ultimo anno è stata la consapevolezza che potevo fare di più rispetto a quanto avevo fatto fino a quel momento e che quindi dal sogno si poteva passare a qualcosa di diverso. Questo inverno mi sono allenato due volte al giorno, anche se in questi anni sono stati tanti i passi precedenti che mi hanno portato a essere pronto. Ho acquisito soprattutto la consapevolezza che la mia testa poteva fare la differenza. Non ho dita e braccia per fare il 9a, ma la testa per salite di questo tipo sì. Ci ho ragionato molto e ho capito che era il mio punto di forza. Con la mia prima solitaria di una certa importanza, alla Roda di Vael, ho capito che c'era qualcosa in questo tipo di alpinismo che poteva funzionare con me. Poi ci sono state altre cose, il Nose è stata l'ultima. Ma ho avuto le mie conferme, ecco.
Come si può allenare questa condizione? Dita e braccia si possono allenare in palestra, qui è un po' diverso...
Ma è anche genetica: c'è chi sviluppa subito forza e resistenza, io sono sempre riuscito a focalizzarmi molto sulle cose che mi piacevano e a lavorarci, ma soprattutto nelle situazioni complicate la mia mente riesce a fare uno scatto. Magari ci sono persone che in difficoltà vanno in down, per me è il contrario. Me ne sono accorto anche nella classica situazione da valanga, quando devi usare l'artva. Mi attivo subito e sono totalmente dentro le cose che devo fare.
Su Eternal Flame hai dovuto affrontare molte difficoltà: maltempo, contrattempi, la solitudine. Dove ti sei sentito più impegnato sotto l'aspetto mentale?
È stato un susseguirsi di cose, non so dire qual è stato il momento più difficile, ma andando avanti la stanchezza continuava ad aumentare, il cibo diminuiva e poi anche l'acqua. E se manca l'acqua non puoi nemmeno mangiare. E poi a un certo punto ci si è messo anche il meteo. Un'altra cordata che era vicina è scesa, ero solo. Mi sono detto vado giù, ma poi allo stesso tempo mi sono detto che se fossi andato giù non sarei tornato più. Quel momento mi ha aiutato ad andare avanti. Ma senza acqua non puoi resistere a lungo. Ho dovuto valutare razionalmente il da farsi, ho pesato bene tutto.
Ti sei mai trovato nella condizione in cui ti eri tagliato i ponti per tornare indietro?
No, non sono mai stato nella condizione del non ritorno. Non sono mai stato nella situazione per cui vai avanti un un tiro alla volta, un metro alla volta senza sapere se ci sarà un dopo. Avevo sempre il quadro generale in mente. Poi, il pericolo è sempre soggettivo: se parli con i miei genitori la vedono come una cosa pericolosa, ma le mie sensazioni sono sempre state buone.
Sulla Nameless Tower © archivio Ragazzo
Come è nata la tua passione per l'alpinismo?
I primi passi li ho fatti dopo le superiori, ho fatto un po' di alpinismo e arrampicata su roccia e come gran parte dei ragazzi, leggevo i libri di Bonatti e Messner. Ho scoperto che esistevano le spedizioni alpinistiche, potevo combinare il viaggiare con lo scalare, che per me è stato il massimo: potevo unire le due cose che preferivo. Nell'arrampicata mi sono trovato bene fin dall'inizio, l'alpinismo ha preso tutte le mie energie. Al tempo lavoravo in ufficio, il venerdì andavo al lavoro già con la macchina carica per andare a scalare tutto il weekend. È andata così fino a quando ho fatto la selezione per il corso guide. Mi sembrava impossibile fare la guida alpina, anche solo per i soldi che ci volevano. Ma non ho mai mollato, anche se i miei dubbi li ho avuti. Ci sono stati dei momenti dal ritorno dalla Patagonia che io e Silvia andavamo a rovistare nei cassonetti del panificio per prendere il pane avanzato, mettevamo tutto nella nostra passione e facevamo davvero fatica a mettere insieme il mese. Ora mi dico bravo, ma come spiegavo prima, ho avuto tanti dubbi su quello che stavo facendo.
Non vieni dalla montagna.
Sono nato in un paese alla periferia di Padova, in vacanza con i miei andavamo al mare. Non ho avuto nessun imprinting al riguardo. Ho mosso i primi passi in Agner, San Lucano, Civetta, Marmolada. È stato un ambiente che mi ha educato anche a una certa etica della scalata.
Vie che hanno segnato i tuo inizi?
Tante: sulla sud della Marmolada, vie come il Pesce sono state un bello step. O Capitan SkyHook in Civetta. Piano piano mi sono reso conto che stavo crescendo. Ho iniziato subito con vie di un certo impegno, ho saltato tutte le vie di V. Mi ricordo il Diedro Casarotto alle Pale di San Lucano a 22 anni o la Paolo Sesto.
Spesso hai spiegato che Silvia è molto importante, non solo quando scalate insieme, ma anche a distanza.
Nel corso degli anni ti rendi conto che c'è un'intesa talmente forte che non serve nemmeno parlarsi e questo vale in primo luogo quando si scala insieme, anche su vie dure e iperveloci in libera. Quando vado con altri, anche se sono forti, non ho la stessa intesa e la stessa sicurezza che deriva da quella conoscenza, da quell'incastro. Questa cosa poi è talmente forte che funziona anche a distanza. Sul Nose è stata fondamentale la spinta che mi ha dato: mi ha detto che potevo farcela, ma soprattutto ha funzionato perché è stata lei a dirmelo. Sulla Nameless non avevo niente per comunicare però non hai nemmeno bisogno del messaggio. Sai che ti sta pensando. La Nameless in fondo è stata una cosa a parte, nove giorni con il cervello spento, totalmente dentro quello che stavo facendo. Pensa che in cima non ricordavo quanti giorni ero stato lì.
Due sognatori come voi avranno sicuramente in mente già altri luoghi da esplorare. Dove andrete?
Il Pakistan ha delle montagne pazzesche, qualcosa per cui vale la pena tornarci. Per quello che ho visto del Baltoro, per me che cerco il verticale e non la cima in sé, lì c'è il tipo di alpinismo che fa per me. Mi piacerebbe tornare in Pakistan, oltre i 7mila. Himalaya e Karakorum.
Qualcosa da aggiungere su quello che hai visto nel tuo ultimo viaggio?
Sì, qualcosa di non necessariamente positivo sui campi base. Al base delle Trango c'era, sulla morena, un buco dove tutti buttavano la spazzatura e già dal secondo, terzo giorno ho visto buttare i sacchi lì dentro. Funziona che paghi 150 dollari di tassa rifiuti, però quelli del parco o quelli dell'agenzia si rimpallano un po' la responsabilità e non ritirano sempre la spazzatura. Mentre sono stato lì ho cercato di coinvolgere anche altre persone nel raccogliere quello che c'era in giro e nel farci carico della roba rimasta, sono arrivato a chiedere di affittare altri due muli per portare via 60 chili aggiuntivi. Poi un'altra agenzia, non la mia, si è offerta di portare a valle la spazzatura, ma comunque a fine spedizione il mio cuoco mi ha chiesto altri 50 dollari per i miei rifiuti se non li volevo buttare nel buco. Ci sarebbe poi da capire se quei soldi servono davvero a raccoglierla, o che fine fanno. Credo che sarebbe importante interessarsi tutti a questo aspetto, anche gli atleti pro che volano da una spedizione all'altra. Superare l'approccio “siccome ho pagato sono a posto con la coscienza” e provare invece a fare qualcosa.
Il buco nella morena dove vengono gettati i rifiuti al campo base delle Torri di Trango © S. Ragazzo