Salvaterra, il ricordo di Giarolli: «Aveva un entusiasmo incredibile»

Il compagno di cordata di tante avventure ripercorre i bei momenti vissuti insieme: «Lo conobbi per una gara di sci, lo battei e da lì inizio il tutto». «Negli anni '80 per noi contava solo il presente, ed erano le nostre scalate»

Si sono conosciuti in Brenta nel 1983 e si sono piaciuti subito, formando per più di dieci anni una cordata quasi indivisibile. Poi le rispettive strade si sono separate, ma per Maurizio Giarolli, Ermanno Salvaterra era ed è rimasto sempre un grande amico. Alla notizia della sua scomparsa ha immediatamente lasciato la Croazia – nei dintorni di Spalato- per tornare in Brenta con un lungo viaggio in macchina. Per tornare a salutare Ermanno e a dare un forte abbraccio a Gabriella, la compagna del grande alpinista.

Durante il viaggio di ritorno Icio, come lo chiamava affettuosamente Salvaterra, ci ha raccontato dei tanti momenti vissuti insieme: episodi noti e meno noti ai frequentatori del Brenta e alla comunità alpinistica, aneddoti che fanno ben comprendere la natura di Ermanno «un uomo che ti poteva prendere bene o male, senza mezze misure, e che aveva un entusiasmo enorme per quello che faceva. Era difficile stargli dietro, ma è sempre stato così, da quando l'ho conosciuto fino a oggi».

 

«Ermanno era un uomo che ti poteva prendere bene o male, senza mezze misure, e che aveva un entusiasmo enorme per quello che faceva. Era difficile stargli dietro, ma è sempre stato così, da quando l'ho conosciuto fino a oggi».

 

Il loro primo incontro risale a 40 anni fa esatti, ed è stato il caso a metterli uno di fronte all'altro. «Ermanno aveva preparato il trofeo per il vincitore dei campionati italiani di sci delle guide. Lo aveva dedicato a un suo amico scomparso, Dino Sottovia, per cui ci teneva ad arrivare primo. Ma invece vinsi io e dovette lasciarmi il trofeo. Mi avvicinò e mi disse che il giorno dopo sarebbe andato in Yosemite, ma che mi doveva parlare al suo ritorno. Per me era già qualcosa di straordinario, quando tornò gli chiesi se voleva venire con me a fare il canalone Neri con gli sci, una cosa per pochi. Dopo un'estate a scalare insieme, che sembravamo due fidanzati, partimmo per la Patagonia».

 

Maurizio Giarolli, Elio Orlandi ed Ermanno Salvaterra alle Torri del Paine © Maurizio Giarolli

Quella spedizione fu particolarmente ricca di soddisfazioni. «Fummo i primi a fare il Cerro Torre e il Fitz Roy nella stessa stagione. Della via del compressore era appena la seconda ripetizione, dopo quella di Jim Bridewell, a cui aggiungemmo la supercanaleta con Elio Orlandi. Era la mia prima volta fuori dall'Europa. Eravamo ben preparati, molto motivati, ma chiaramente fu un'esperienza provante. Ho vissuto degli stati emotivi post scalata davvero molto intensi. Siamo stati via due mesi e mezzo». Per chi ama leggere di alpinismo e avventure, nel libro Patagonia il grande sogno Salvaterra racconta di come - dopo il Torre- fossero stremati nel tornare a piedi a El Chalten, tanto che dopo un paio di giorni senza mangiare arrivarono a forzare la finestra di una baracca per prendere pasta, sugo e fagioli al suo interno. Ma smontarono tutto l'infisso senza rompere niente, e pochi giorni dopo tornarono appositamente per riportare l'intero maltolto, smontando e rimontando la finestra una seconda volta. Ermanno era un uomo di una integrità inscalfibile.

 

Ermanno Salvaterra sulla via del compressore, nella seconda ripetizione del 1983 © Maurizio Giarolli

L'anno successivo ci fu una parentesi himalayana, prima di tornare in Patagonia con un progetto ancora più ambizioso. «Nel 1985 ci fu la nostra spedizione con Sarchi e Caruso al Torre, in invernale (nella foto di copertina il quartetto alla capanna del Campo Maestri, ndr). Riuscimmo nella prima assoluta, qualcosa che era nato un po' come una cosa da matti e che però funzionò. Non solo per le capacità, ma anche per l'atmosfera che si era creata».

Di salita in salita, di spedizione in spedizione: al campo base Ermanno e Maurizio sentivano parlare di una cima e si mettevano in testa di provarla. «C'è da dire che vivevamo totalmente nel presente, il futuro era una nebulosa che non volevamo nemmeno guardare. In Patagonia avevamo conosciuto gli slavi, c'erano Silvio Karo e Franck Knez: lo chiamavano Sei e mezza per via del record di velocità sull'Eiger. Beh, mi ero messo in testa di farlo anch'io in solitaria, anche se non sarei stato in grado. Quando lo dissi a Ermanno mi chiese se si poteva unire. Così alla fine ci trovammo in due alla Kleine Scheidegg. Una guida del posto ci disse che sarebbe arrivato un temporale alle 17, mi ricordo che pensammo: va bene la precisione svizzera, ma così è troppo. Insomma, decidemmo di andare a dare un'occhiata. Arrivammo all'attacco tardissimo, alle 9. Io avevo un paio di braghe della tuta, una sola corda da 50 metri. Ci lasciammo ingolosire, alle cinque avevamo finito il traverso degli dei. Il temporale arrivò puntuale. Prendemmo per sbaglio la diretta Harlin, ci toccò un bivacco impossibile, con un telo argentato in due. Il giorno dopo scendemmo, ma con una corda sola dovemmo prendere un pezzo della fissa di Harlin e spazzolare tutti i chiodi che trovavamo. Ci volle un secondo bivacco, ma tornammo a casa vivi. Dovevo fare una serata di diapositive, arrivai in ritardo di un'ora. Venti giorni dopo, in Nepal, per i postumi dei congelamenti ci si sbucciavano i piedi nell'avvicinamento al campo base».

 

Più delle tante imprese di Ermanno, oggi emerge soprattutto la sua grande capacità di entusiasmarsi per le avventure che sarebbero dovute venire, e di passare nel breve dall'immaginare al fare. Una caratteristica che lo ha accompagnato fino alla fine. «L'ho incrociato non molto tempo fa, mi ha subito aggiornato su quello che aveva fatto nella sua ultima spedizione in Patagonia e su quanto ancora gli era rimasto da fare. Per quel che mi ricordo parlava di una via da completare sulla Torre Egger, ma al di là dei progetti, è venuto fuori ancora una volta il suo carattere di sempre, quel suo entusiasmo di natura così giovanile che non lo ha mai abbandonato».