Un frame dal film “Die Wand” (La parete), di Julian Pölsler, 2012.La Parete di Marlen Haushofer (pp. 256, 11 euro, e/o 1989, 2013) è un romanzo magnetico, avvincente come un thriller, inquietante come un film di fantascienza e provocatorio come un enigma senza soluzione. Pubblicato per la prima volta nel 1969 in tedesco e non a caso 20 anni dopo in traduzione italiana (ovvero quando cadde il muro di Berlino, l’immagine più vicina alla parete della finzione), è l’opera che ha fatto conoscere in Italia questa autrice austriaca morta nel 1970 ad appena cinquant’anni, eppure rimasta ai margini del panorama letterario, nonostante una scrittura di grande pregio, forte, diretta, senza retorica, capace di attraversare gli anni senza invecchiare: un classico si direbbe.
Per molti La parete è un libro di culto.
L’angosciante storia, infatti, ambientata in un non precisato punto delle Alpi austriache, risente delle ansie nucleari tipiche del periodo della Guerra Fredda e già forse questo ce l’avvicina, considerando gli scenari internazionali. Ma le riflessioni sul rapporto fra uomo e natura che il romanzo contiene, rilette oggi, sono di un’attualità così impressionante, che vale la pena riprenderlo in mano.
Il ritorno di medusa
La protagonista è una donna di cui mai viene citato il nome. È primavera quando si reca dalla cugina nello chalet di montagna del marito di lei per un week end di relax: appena arrivata, dopo pranzo, i coniugi si recano in paese per una commissione. Quando si fa sera, non vedendoli arrivare, la donna va a dormire, non senza aver fatto mangiare Lince, il loro cane, rimasto con lei. Al mattino in casa non c’è ancora nessuno. E non ci sarà mai più nessuno: durante la notte, infatti, a pochi passi dalla deliziosa casa in pietra e legno, è misteriosamente sorta una parete dura come la roccia, ma trasparente come l’acqua.
La donna si trova totalmente isolata dal resto del mondo e ipotizza che qualcosa sia andato storto con l’ennesimo esperimento nucleare. Osservando attraverso la parete, si vedono alcune case in lontananza, e persone intorno: ma sono immobili, pietrificate in eterno come vittime di Medusa. Non resta che guardare anno dopo anno la gramigna invadere i campi abbandonati e le piante riprendersi case, campanili e strade, obliterando il passaggio dell’uomo senza batter ciglio.
La protagonista si trova sola con un cane, una gatta e una mucca: a quelle bestie si attacca con un sentimento non diverso da quello riservato ai famigliari ormai perduti, le accudisce come si fa con un figlio, un genitore, una sorella, a loro si rivolge per trovare conforto nei momenti di disperazione assoluta, per loro rinuncia a cercare altre persone come lei, perché allontanarsi significherebbe lasciarli morire di fame. Lega il suo destino al loro e lo racconta in questo diario di due anni e mezzo paradossali, diario scritto con gli ultimi mozziconi di matita sui margini di frusti almanacchi, che invece si ritrova a chiamare “realtà” per la prima volta in vita sua. Perché tolta ogni sovrastruttura, quello che rimane è pura essenza.
La copertina del libro.Non chiamatela Robinson Crusoe
Bastano le prime parole a incollare il lettore alla pagina: il racconto si snoda spietato, a tratti crudo, duro come la nuova situazione a cui è costretta la donna, vedova, sulla quarantina, madre di due figlie grandicelle rimaste dall’altra parte. Non c’è tempo per pensare, che poi è meglio non indulgere troppo a rendersi conto che tutto quello che finora è stato non sarà mai più. L’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento: l’estate è in arrivo, e bisogna approfittarne per prepararsi all’inverno. Del resto, capire quanto sta succedendo è impossibile. È troppo, è da impazzire. E questa infatti è la storia di una donna che resiste disperatamente alla pazzia. L’hanno paragonata a Robinson Crusoe, che restò 28 anni naufrago su un’isola dell’Atlantico: ma all’iconico personaggio del romanzo di Defoe restava la confortante certezza che il mondo intorno a lui era rimasto identico e che forse un giorno avrebbe potuto tornarci. Oltre al fatto che sapeva bene cosa gli fosse successo. Ben diversa condizione.
Spogliata di ogni abitudine, convenienza, comodità, la donna viene precipitata in una dimensione primitiva dell’esistenza, totalmente dipendente dalla Natura. Tutto è ora regolato dal ciclo stagionale di nascita e morte, calore e gelo, pioggia e siccità, abbondanza e privazione: il tempo, il cibo (cosa mangiare, quanto, quando), i lavori da fare, e così via.
Senza altri esseri umani con cui confrontarsi finisce col perdere il suo status di “persona”, termine che in latino significa “faccia”: per un animale la faccia di un essere umano non ha nessuna importanza, bastano gli odori, la voce, l’atteggiamento e che gli dia da mangiare. Solo il cane sembra andare oltre, cogliendo anche gli stati d’animo.
Il finale è da scoprire: ma lo stile asciutto e lucido colpisce dritto al cuore e il romanzo si deposita nella mente per giorni.
L'attenzione in Italia non è mancata. Nel 2012 ne è stata realizzata una versione cinematografica per la regia di Julian Pölsler, con Martina Gedeck, presentata al Trento film Festival, nel 2024 il programma radiofonico “Ad alta voce” di RadioTre Rai lo ha trasformato in un audiolibro. Sempre nel 2024 L’orma ha riproposto Noi e la morte di Stella, per la prima volta pubblicato nel 1958, dove già affiorano i temi affrontati dopo: La parete non è un caso isolato di creatività ben riuscita, ma l'apoteosi di una sensibilità quasi visionaria.
Non ancora ambientalismo
Le chiavi di lettura sono molteplici. C’è sicuramente la critica agli “stupidi” contemporanei, fra cui la protagonista si annovera senza sconti. C’è il tema femminile e femminista di una donna che ha bisogno di escludere i maschi per potersi liberare da un ruolo predefinito. C’è la storia di un’infanzia perduta e irrecuperabile. Ma la sensibilità odierna non può non soffermarsi sul modo in cui viene ritratto il rapporto con la natura, una natura alpina in questo caso, fatta di alberi e animali tipici come larici e cervi. E questa natura sempre compare per quello che realmente è, fonte di vita ma anche di morte, in tutte le forme in cui entrambe si manifestano: non c’è spazio per la contemplazione della dimensione perduta, non c’è l’elogio del ritorno a un’esistenza più pura, o di una ritrovata sintonia con piante e animali. Non c’è traccia della teorizzazione dell’ambientalismo come lo leggiamo noi oggi. La bellezza di certi scorci paesaggistici rimane impigliata fra i pensieri della protagonista senza mai esplodere in aperta ammirazione.
L’attenzione è però spostata sulla critica antropologica. Non è ancora tempo di un nuovo Umanesimo: al centro di ogni analisi c’è l’essere umano con tutte le sue fragilità e i suoi limiti di conoscenza e di coscienza. Emerge fortissima la consapevolezza che la natura senza umanità va benissimo avanti da sola: anzi, il bosco l’uomo non lo vuole, pensa, non ne ha bisogno. Come si chiuderà questa storia? Cosa farà la donna? A lei la scelta se andare avanti al di là di ogni ragionevolezza, o interrompere volontariamente la sua nuova vita. In questo bivio una sola certezza: l’amore.
“Le cose semplicemente accadono e io, come milioni di esseri prima di me, vi cerco un significato, perché la mia vanità mi impedisce di ammettere che l’unico significato di un evento consiste nell’evento stesso. (…) Solo noi siamo condannati a inseguire un significato che non può esistere. È difficile abbandonare un’atavica megalomania profondamente radicata. Compiango gli animali e compiango gli uomini perché vengono gettati in questa vita senza averlo chiesto. Gli uomini forse meritano maggior commiserazione, perché posseggono giusto quel tanto di giudizio per opporsi al naturale corso delle cose. Ciò li ha resi disperati e cattivi e poco amabili. Eppure, sarebbe stato possibile vivere diversamente. Non esiste impulso più ragionevole dell’amore. (…) Solo, avremmo dovuto riconoscere che si trattava della nostra unica possibilità”.