31 maggio 1982. L’avventuroso cammino di
Carlo Mauri si interrompe all’età di soli
52 anni, pochi giorni dopo l’infarto che lo ha colto mentre si allenava per qualche nuova avventura, sulla via ferrata del
Pizzo d’Erna, il bastione roccioso che si eleva ai piedi del Resegone, a picco su Lecco, la città che lo aveva visto nascere e dove aveva sempre fatto ritorno dopo le sue spedizioni negli angoli più remoti del Pianeta.
Trent’anni di grandi avventure
La vita di Mauri, nei trent’anni precedenti la prematura scomparsa, era stata ricca come poche altre di incredibili esperienze e vicissitudini.
Nell’immediato dopoguerra, il “Bigio” aveva fatto parte del manipolo di giovanissimi scalatori che avevano dato vita al
Gruppo Ragni della Grignetta, e in breve era emerso come uno dei più talentuosi alpinisti della nuova generazione. A soli vent’anni, assieme all’altrettanto talentuoso compagno
Luigi Castagna, si era messo in luce realizzando la seconda ripetizione della
via Cassin alla Nord Est del Badile nel tempo record di 19 ore.
Presto aveva formato con
Walter Bonatti una delle più affiatate e formidabili cordate del dopoguerra, portando a compimento imprese come la prima salita invernale della
Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo e la seconda invernale della
Comici alla Cima Grande, nel 1953.
Sempre in cordata con Bonatti, nell’estate australe del 1958 era stato protagonista dell’avveniristico tentativo alla
parete ovest del Cerro Torre (in contemporanea con la spedizione trentina guidata da Bruno Detassis, impegnata sulla parete Est della stessa montagna), e della traversata del
Cordon Marconi.
Altro capolavoro della coppia Bonatti-Mauri era stata la prima ascensione assoluta del
Gasherbrum IV (7925 m), realizzata sempre nel ’58, nell’ambito della grande spedizione nazionale del Cai guidata da Riccardo Cassin. La via, ancora oggi irripetuta, rappresentò un
punto di svolta nella storia dell’alpinismo hilamayano: nessuno sino ad allora aveva mai affrontato difficoltà tecniche così elevate (passaggi di V grado) a quote che sfiorano gli 8000 metri.
Memorabile anche la loro doppia solitaria del 1959 sul versante Brenva del
Monte Bianco, quando Mauri e Bonatti salirono la grande parete di aspetto himalayano (più di 1300 metri su terreno misto), rispettivamente lungo la via della Poire e la via Major.
Carlo Mauri in vetta al GIV © Archivio Ragni della Grignetta
Un incidente sugli sci e una nuova vita
Una carriera alpinistica che sembrava destinata ad un futuro ancora più brillante la sua, ma che venne drasticamente interrotta da un incidente sugli sci, occorsogli nell’inverno del
1961. Quella che sembrava una banale frattura di una gamba diventò una
menomazione dalla quale non si riprese mai completamente, costringendolo a rinunciare alla scalata ai massimi livelli, ma non certo al suo desiderio di avventura. Da quell’evento drammatico cominciò, infatti, la seconda vita di Mauri, quella di
viaggiatore, esploratore e reporter.
Animato da incredibile coraggio e fantasia, l’alpinista e esploratore lecchese negli anni successivi visitò le lande ghiacciate dell’
Antartide, si inoltrò negli angoli più inesplorati dell’
Amazzonia e dell’
Australia, incontrando gli ultimi rappresentanti delle culture originarie degli indios e degli aborigeni, viaggiò a cavallo lungo la
Via della Seta, sulle orme di Marco Polo, e attraversò gli oceani sulla barca di papiro assieme all’antropologo
Thor Heyerdahl, che voleva dimostrare con queste traversate la possibilità di contatti fra le antiche civiltà del Mediterraneo e quelle dell’Asia e dell’America Centrale.
In molte di queste peregrinazioni non mancò per Mauri l’occasione per tornare al suo originario amore per la scalata, spesso salendo qualche cima ancora inviolata:
«La mia gamba resti pure martoriata e menomata», scriveva lui stesso, «peggio per lei, io vado in montagna e lei deve seguirmi».
Carlo Mauri in Amazzonia per un reportage © Archivio Ragni della Grignetta
Il sogno patagonico
Questi suoi viaggi li raccontò, con parole e immagini, nei celebri reportage realizzati per le grandi riviste illustrate come il settimanale
Epoca e in documentari filmati. Articoli e video che fecero sognare generazioni di italiani.
Quanto e forse ancora più che nelle imprese che ha realizzato, la più grande eredità di Carlo Mauri sta proprio nella sua capacità di ispirare sogni e di incoraggiare ad andare oltre i limiti che il destino sembra averci assegnato.
Non è un caso che sia stato proprio lui, con la spedizione del 1956 al
Monte Sarmiento (guidata dall’esploratore A
lberto Maria De Agostini) e poi con quella del 1958 al
Cerro Torre, a svelare ai lecchesi il meraviglioso orizzonte delle montagne patagoniche, dove gli scalatori nati all’ombra della Grignetta avrebbero colto alcune loro più belle realizzazioni.
A Mauri si deve anche la scoperta del “fenomeno”
Casimiro Ferrari, che volle con sé nella spedizione al
Monte Bukland del 1966 e poi nel nuovo tentativo alla parete ovest del
Torre da lui stesso guidato nel 1970, dove Casimiro dimostrò tutta la sua audacia e affinità con l’infido ghiaccio verticale delle montagne patagoniche, ponendo le basi per la
vittoriosa impresa del 1974, che portò i Ragni in vetta alla "Montagna impossibile", consacrandoli definitivamente nel gotha dell’alpinismo mondiale.
Mauri (a sx) con i Ragni nelle prime scalate nel Masino © Archivio Ragni della Grignetta
Sette “ambasciatori” per ricordarlo
A
quarant’anni dalla scomparsa la sua città ricorda il grande alpinista ed esploratore con la mostra dal titolo
“Carlo Mauri, nato in salita”, la cui inaugurazione è prevista per oggi, proprio nel giorno dell’anniversario della morte, e rimarrà allestita fino al
30 novembre 2022, nelle sale del
Palazzo delle Paure.
Spega
Francesca Mauri, figlia di Carlo e promotrice dell’iniziativa:
«La mostra vuole ricordare la figura di mio padre non solo ripercorrendone le imprese, ma anche mettendo in evidenza lo spirito che lo ha sempre animato. Ciò che vogliamo raccontare è la capacità di fare i conti con quello che il destino ci riserva, ma anche di continuare a sognare e di rinascere, andando oltre i propri limiti. Abbiamo scelto sette “ambasciatori” le cui testimonianze saranno integrate nell’allestimento della mostra, persone che nella vita hanno dovuto affrontare grandi sfide e rappresentano la prosecuzione ideale di questo spirito indomito. Si tratta della scrittrice e attrice Antonella Ferrari, di Fabrizio Fontana, dei campioni paralimpici Luca Pancalli, Daniele Cassioli e Federico Pellizzari e degli alpinisti Marco Confortola e Andrea Lanfri».