Riccardo CassinIl 2 gennaio 1909 nasce a San Vito al Tagliamento Riccardo Cassin. Un grande del Novecento. Pochi sanno che Cassin è un gene che abbiamo in corpo, precisamente quel “gene bussola” che guida lo sviluppo dei neuroni che risiedono nel midollo spinale umano per collegare il cervello al sistema periferico. I ricercatori dell’ospedale San Raffaele di Milano hanno voluto dargli il nome di Riccardo perché, scrivono, “come Cassin è un gene esploratore in grado di aprire una via”. Lui sorriderebbe compiaciuto, senza montarsi né sottovalutarsi troppo. Direbbe che è vero, che di quei geni ne aveva in abbondanza, e che cominciò a usarli quando dopo la boxe scoprì la montagna. Li usò sul vertiginoso spigolo della Torre Trieste, sesto grado, poi sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, artificiale estremo, scalando gli strapiombi sotto i temporali, e sul Badile, sulle Grandes Jorasses, sul McKinley, dio quante scalate!
Il più completo
Dopo la Trieste e la Lavaredo il roccioso Cassin era già il più forte alpinista italiano, o almeno il più completo. Scalava con la stessa determinazione sul granito e sul calcare, padroneggiava l’arrampicata libera e i chiodi, non temeva il ghiaccio e l’alta montagna. Friulano di nascita e lecchese di adozione, era il leader indiscusso della scuola dei rocciatori del Lario e poteva fare affidamento su compagni sanguigni, fedeli e decisi quanto lui, accomunati da concretezza e realismo di matrice operaia. Gli scalatori del lago erano abituati a lavorare dieci ore al giorno in officina e ad allenarsi la domenica in Grigna, con qualsiasi tempo. Spesso raggiungevano la montagna a piedi o in bicicletta. Da ragazzo Cassin aveva fatto il pugile e aveva provato i colpi della vita, ma anche la poesia del mondo. Conosceva “gli ultimi grandi problemi” delle Alpi, li rispettava e non si lasciava intimorire. Il suo motto era “andiamo, proviamo e vediamo”.
La nord-est del Pizzo Badile © Wikimedia CommonsIl Pizzo Badile
Forse la via che gli assomiglia di più è quella sul Pizzo Badile. Siamo nel 1937, non si parla ancora di guerra ma di pareti sì. La montagna piace al regime e gli alpinisti vanno sui giornali. Nel 1937 Cassin ha ventotto anni e cerca un’altra grande prima sulle Alpi. In Val Bregaglia ha scoperto il granito del Badile e sa che gli alpinisti hanno messo gli occhi sulla parete di Bondo. La chiamano semplicemente la Nordest, il nome è una garanzia. La Nordest è una pala così grande e convessa che a fissarla bisogna ribaltare gli occhi, soprattutto quando il sole del mattino disegna la lavagna di ottocento metri. La Nordest è una geometria dura e dolcissima allo stesso tempo, irresistibile. Il Badile è liscio, bello, spaventoso e non finisce mai. Con i mezzi tecnici dell’epoca è una gran prova di astuzia e resistenza. Per questo attira Riccardo, che il 14 luglio 1937 si lancia con i forti Vittorio Ratti e Gino Esposito, sotto un cielo lunatico, umido e inaffidabile.
Con le previsioni di oggi nessuno attaccherebbe il Badile con quel cielo, ma Cassin non ha né internet né i bollettini meteorologici, e poi ha poco tempo con qualunque tempo. In parete incontra Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi di Como, più lenti e deboli dei lecchesi, anche male equipaggiati; Riccardo li rimorchia sul muro immenso. Piove, grandina, fa freddo, non sembra estate, ma lui non molla e sale la lavagna, scovando la via in un dedalo di placche senza respiro e senza prospettiva: “Proseguiamo ancora per una trentina di metri e alle 21 siamo su un pianerottolo che si presta per passare la notte”. Appena si sistemano per il bivacco si scatena un temporale, ma verso mezzanotte il vento del nord spazza le nubi e riporta un’illusione di sereno. “Con il sorgere del sole ci scaldiamo un po’ e riprendiamo la salita”. Al mattino Molteni e Valsecchi danno segni di esaurimento. A mezzogiorno il cielo si copre di nero e ritorna la pioggia, che si trasforma in grandine e presto in neve. I comaschi sono distrutti, non ce la fanno più. Nevica fitto e la visibilità è ridotta a un metro. Cassin non dispera e il terzo giorno li porta tutti in cima. “Ci sembra che lassù ci sia la salvezza”. Verso le sedici la parete è scalata, ma la lotta non è finita. La tormenta infuria sempre più violenta e la neve avvolge tutto. “Non riusciamo più a orientarci per raggiungere il rifugio Gianetti. I comaschi più pratici della zona non possono e non riescono a darci alcun ragguaglio. Intanto si fa notte. Facciamo tutto il possibile per tenere lontana la morte che è in agguato... ma invano”. Molteni e Valsecchi muoiono di sfinimento durante la discesa. Si spengono come candele. All’alba il cielo è terso.