Renato Casarotto e la trilogia del Frêney: il sogno solitario oltre i limiti dell'alpinismo

Renato Casarotto e la sua impresa solitaria sulla trilogia del Frêney, un viaggio ai confini dell’alpinismo e dell’essenza della vita.
Renato Casarotto durante il trittico

Renato Casarotto diceva che “l’alpinismo solitario è l’aspirazione massima di un alpinista”, anche se buona parte degli alpinisti “non capisce chi lo pratica e non ne condivide i motivi e le ambizioni”. Lui quando era solo non provava né angoscia né disagio, ma entrava in una condizione in cui tutto gli riusciva più facile e ordinato.

Credo che fosse solitario un po’ per vocazione e un po’ per forza. Certo era dotato di uno straordinario autocontrollo e si ostinava a temporeggiare per settimane là dove chiunque altro sarebbe tornato indietro da un bel pezzo; veniva da una famiglia modesta, all’antica, e aveva provato sulla pelle quanto contino l’attesa e la perseveranza nella vita di un uomo semplice. Continuò i suoi viaggi fuori dal tempo anche mentre a Chamonix sfrecciava già il primo Profit e luccicavano i primi spit.

 

La trilogia del Frêney al Monte Bianco

Tra l’1 e il 15 febbraio 1982 realizza una delle più belle imprese concepibili da un uomo solo: la trilogia del Frêney al Monte Bianco. Senza contatti con la valle e senza depositi intermedi di viveri, sale in successione la parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey per la via Ratti-Vitali, il pilastro del Pic Gugliermina per la via Gervasutti-Boccalatte e il Pilone centrale per la via Whillans-Bonington. Non conosce nessuno dei tre itinerari e, dopo due settimane bianche nel silenzio siderale dei quattromila metri, è costretto a forzare l’uscita dal Pilone sotto l’angoscia della tormenta: “Ho raggiunto la cima del Bianco quasi senza rendermene conto, nella nebbia fittissima. Erano le 12 e 10 e l’altimetro segnava 5000 metri. Da ovest stava arrivando il finimondo: ho scavato una buca nella neve e ho aspettato. Secondo la mia logica non c’era altro da fare. Ho bivaccato ed è stata una delle notti più dure di tutta la mia carriera alpinistica. Sul Bianco, per la particolare posizione del massiccio, quando arrivano le grosse perturbazioni da ovest sembra di essere nell’occhio del ciclone”. Raggiunge fortunosamente la capanna Vallot, che è un deposito di neve, e poi si trascina fino al Goûter nuotando nella neve.

Vado a intervistarlo dopo pochi giorni con Roberto Mantovani, nel nuovo alloggio presso Bergamo dove una Goretta (la moglie di Renato Casarotto, ndr) sempre più sicura e importante ci accoglie con la consueta cortesia. Troviamo un Renato più fanciullo e visionario che mai, ancora proiettato con tutto sé stesso in quell’impresa tanto più grande di lui. Mostra la strana serenità dei reduci appena sbarcati da un altro mondo, ma anche l’inadeguatezza di chi ha toccato il cielo e stenta a tornare nella normalità: “È sempre duro arrivare così vicino all’essenza della vita – scriverà nel libro Oltre i venti del Norde dopo ritornare indietro…”.