Renato Casarotto e la nord del Piccolo Mangart: un capolavoro d’inverno

Renato Casarotto nel 1983 compie un’impresa storica scalando in solitaria e d’inverno la parete nord del Piccolo Mangart, sfidando neve, gelo e difficoltà estreme.
Renato Casarotto

Poca neve sulle montagne e temperature altalenanti, più verso l’alto che verso il basso. Il mood con cui il mese di gennaio del 2025 si è presentato, un tempo sarebbe stato definito anomalo, oggi invece è la norma. Eppure c’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui gli inverni erano davvero tali. La salita che ricordiamo oggi ci riporta proprio a quell’epoca.

L’anno è il 1983 e il luogo è il Piccolo Mangart di Coritenza, nelle Alpi Giulie, una montagna che certo non eccelle per altezza, ma dove nei mesi invernali, si registrano temperature fra le più basse dell’Arco alpino, e la neve, almeno fino a quel periodo, cadeva sempre copiosa. È questo il teatro di una delle più incredibili imprese solitarie invernali di sempre.

Una contestualizzazione storica è necessaria: i primi anni Ottanta, in alpinismo, sono stati l’epoca della scoperta della leggerezza e della velocità. È questo il periodo in cui enfant terrible come Jean-Marc Boivin ed Eric Escoffier salgono e concatenano le grandi pareti a tempo di record per poi magari scendere a valle ancor più velocemente, appesi alla vela di un parapendio... Concetti come fatica, sofferenza, pazienza e lentezza, sembrano essere tramontati per sempre dall’orizzonte degli scalatori.

Eppure, proprio in quegli anni, fra le Alpi, la Patagonia e l’Himalaya, si muove un personaggio che sembra uscito da un altro tempo. Il suo nome, ovviamente, è Renato Casarotto.

Visione estiva del gruppo del Mangart, dal lago di Fusine. Il diedro Cozzolino ben visibile sulla sinistra. © Wikimedia Commons

Da solo e d’inverno

La nord del Piccolo Mangart è una parete enorme e selvaggia, segnata al suo margine sinistro da un diedro perfetto, che sale verticale e strapiombante per oltre 800 metri di dislivello. Proprio lì, sul finire dell’estate del 1970, il friulano Enzo Cozzolino e il compagno Armando Bernardini erano saliti praticamente in completa arrampicata libera, con una manciata di chiodi e affrontando difficoltà continue, spesso superiori al VI grado, aprendo una via destinata rivoluzionare il concetto della scalata nelle Alpi orientali. Casarotto decide di mettersi a confronto con questo capolavoro nel suo stile: ovvero da solo e in inverno.

Si presenta all’appuntamento negli ultimi giorni di dicembre del 1982, accompagnato come sempre dalla moglie Goretta, che lo attenderà alla base della parete.

Lo spettacolo che si dispiega davanti ai loro occhi è surreale e affascinante: il Mangart è completamente bianco, coperto da uno spesso strato di neve che, incredibilmente, resta aggrappata anche ai tratti più ripidi: mai, nelle sue altre grandi ascensioni invernali, Casarotto si è trovato di fronte a una situazione di questo tipo. Dubbi e timori sono inevitabili, ma il 30 dicembre decide comunque di attaccare.

Goretta e gli amici che lo seguono dal basso osservano i suoi progressi: sale ripulendo la neve un metro dopo l’altro, per arrivare fino alla roccia. Dietro di sé lascia una scia scura nel candore della parete. Sembra la traccia di uno spazzaneve!

Ad un certo punto pare addirittura scomparire. Sono momenti di ansia e preoccupazione, ma poi eccolo di nuovo! Semplicemente si è trovato di fronte ad un accumulo di neve troppo spesso per essere rimosso e, senza esitare, ha scavato un tunnel verticale per continuare l’ascesa...

Le temperature si mantengono attorno ai -25 gradi e il terreno, che alterna ghiaccio, roccia e neve, richiede un cambio costante di tecnica e attrezzatura: più volte si deve fermare per calzare o togliere piccozze e ramponi.

La progressione è lentissima, anche perché, fedele alla sua etica, Renato si muove sempre in autosicura, manovra che gli richiede di percorrere per ben tre volte in salita e discesa ogni tiro di corda. Il sesto giorno in parete è il più duro: nonostante gli sforzi titanici riesce a guadagnare appena 20 metri prima di prepararsi per l’ennesimo, gelido bivacco.

Trascorrono altri tre giorni di lotta e finalmente l’uscita dalle difficoltà maggiori è vicina. Si trova a circa 250 metri dalla cima, nel punto in cui Cozzolino e il compagno avevano scelto di abbandonare la direttrice principale del diedro, piegando a destra verso pendenze più moderate. Lui però sceglie di proseguire dritto, seguendo la difficile variante aperta da Silvano Della Mea, che punta direttamente verso la sommità della parete. Questo era il suo progetto originario e trova le forze e la motivazione per seguirlo sino in fondo.

L’alba successiva lo vede superare gli ultimi, difficili tiri di corda. Finalmente, il 9 gennaio, conclude anche questa nuova tappa della sua personale ricerca, sempre diretta oltre i limiti dell’alpinismo, verso l’esplorazione di una dimensione nuova e diversa della coscienza.

Alle spalle ha già imprese entrate nella storia, come l’incredibile Trittico del Freney, portato a termine in 14 giorni di durissima arrampicata nell’inverno precedente, ma il suo giudizio sul valore di questa nuova salita non lascia adito a dubbi: "Dal punto di vista tecnico oserei dire che d’inverno la parete Nord del Piccolo Mangart di Coritenza è la più dura delle Alpi".