Pietra dolce. Intervista a Valeria Tron

Una storia dura come la pietra e dolce come l'amore, ambientata nella Val Germanasca delle miniere di talco, dove un gruppo di amici fraterni cresce insieme, cercando la propria libertà anche grazie al potere salvifico della letteratura.

Si potrebbe giudicare un libro dal gusto persistente. Pietra dolce, di Valeria Tron (pp. 442, 19 euro, Salani 2024), porta bellezza là dove non la si vede più e leggerezza dove non la si pensa possibile. Con quella sua scrittura così potente, evocativa, resa ancor più consistente dall’uso mirato del patois, smuove corde profonde, che vibrano per giorni. Ricorda che la letteratura è ancora pronta a farci sognare, senza distrarci dalla realtà, provocando il nostro senso di umanità, un po’ perduto o forse solo bisognoso di un po’ di calore. 

Figlia della Val Germanasca, illustratrice, artigiana del legno, al suo esordio con L’equilibrio delle lucciole è finita subito fra i candidati al Premio Strega nel 2023, segnalata da Vivian Lamarque. “Wow, allora si può fare” direbbe lei divertita, con quella voce piena e un po’ graffiata della cantautrice che è. Tra i due libri corre un filo sottile che non basta a farne uno il sequel dell’altro. Stanno in piedi da soli.

Valeria si firma Leria, perché “da noi, in Val Germanasca, tutti hanno soprannomi, anche più d’uno”. E così i personaggi di questo romanzo si chiamano Giosuè-Frillobec, César-Lumière, Henri-Tedesc. Lisse non ha bisogno di nomignoli perché senza la U è già un’alternativa: ricorda molto il Novecento di Baricco che mai scese dalla sua nave. Il perché di quei soprannomi si trova nelle pagine, dove questi “quattro moschettieri” in cerca della libertà si ritrovano accomunati da un’assenza con cui devono fare i conti: ma “il vuoto va scolpito”, si legge, perché “non manca ciò che porti dentro”. A guidare la loro educazione sentimentale troviamo Mina, madre putativa per tutti quanti, e Alma, la ragazza venuta dall’Argentina a ritrovare le sue radici scombinando più di un cuore. Ma sono tanti i “coristi” di questo romanzo costruito come un canto dove ogni voce ha un ruolo, attraverso un’epoca che parte con la Seconda guerra mondiale, si sofferma negli anni ’60 e arriva fino ai giorni nostri.

Sulla carta la Val Germanasca, una delle valli valdesi con la Val Pellice, è un territorio minuscolo, circondato da montagne (la più alta è Punta Rognosa, 3208 metri) e culminante nel comune di Prali, la cui principale frazione è Rodoretto, a 1400 metri: Valeria Tron viene da lì e lì torna ogni volta che può, facendo la spola con San Secondo di Pinerolo. Ma leggendo Pietra dolce quella valle sembra grandissima: alla dimensione della favola, che spolvera il romanzo di magia dall’inizio alla fine, si mescola il racconto veritiero della vita dei minatori della zona, della comunità montanara capace di farsi famiglia per chi ne ha bisogno e offrire un piatto di minestra a chiunque lo chieda, della sapienza contadina di chi conosce la natura (i suoi ritmi, le sue leggi, le sue esigenze) perché ci vive da sempre in simbiosi, prendendone il bello di una fioritura e il difficile di una frana. Qui anche gli animali sono protagonisti (Beretta la capra che per prima allatta Lisse, Bas il corvo amico di Giosuè), anche la cascata del vallone del Pis. In sottofondo il tema dello spopolamento di territori tenacemente identitari oggi abitati da poche anime, mentre fortissima si leva la chiamata a tornare a credere nella letteratura e nel potere salvifico dei libri, portatori di speranza.

I più curiosi potranno andare ad ascoltare una versione teatrale di Pietra dolce quest’estate direttamente in Val Germanasca, dove Valeria Tron sta organizzando delle serate in miniera. E conoscere Valeria Tron di persona è un’esperienza sensoriale e umana che non lascia indifferenti.

Valeria Tron a Saronno per una presentazione, il 31 maggio. Foto @ Pamela Lainati.

 

Valeria Tron, come nascono i tuoi libri?

La mia è una scrittura che definirei selvatica, nel senso libero del termine. Mi piace pensare che ogni forma di creatività che riesco a esprimere sia figlia di un pensiero artigiano, sempre curioso, attratto, il più possibile attento. Scrivo per come sento, immagino, osservo, ritrasformo.

Il romanzo riecheggia le tue passioni per la pittura e la musica. 

Non posso slegare la parola scritta da quello che mi muove. La pittura, la musica, la poesia, sono canali risonanti nei quali mi esprimo da sempre. Aiutano a veicolare e ritradurre le emozioni, il dolore, la bellezza che mi attraversano. Va detto, poi, che parola è già musica, quindi risuona melodica nell’altro, sia esso lettore o ascoltatore. La parola è anche colore, impresso nelle immagini che rilasciamo sul foglio, diluito nella narrazione. 

Perché hai scelto di usare anche il patois?

Quella del patois non è una scelta. Sono figlia della mia lingua e attraverso di lei guardo il mondo. Credo sia sbagliato pensare di “possedere” le lingue, piuttosto sono loro che ci consegnano le parole che hanno in dotazione ed è con quelle che esploriamo la vita, la diversità, la bellezza. Essere figlia del patois significa, per me, ascoltare anzitutto la sua vena poetica; d’altronde è la lingua dei trovatori… narratori di poesie cantate. Ascoltare il suo carattere, le parole che ha scelto, mi invita a riflettere e calibrarmi. Se poi penso che per prima ha coniato la parola coraggio, o che ha unito libro e libero in un solo termine, mi apre un ventaglio di riconoscenza e gratitudine. Ogni parola, in patois, ma più in generale nelle lingue di terra, ha peso specifico. Andrebbero ascoltate con maggior cura proprio perché lingue sensoriali e artigiane, in grado di connettersi, confrontarsi, accogliere, raccontare in modo profondo e contemporaneo. Credo molto nel loro valore e ricchezza, ci ricordano che tutto di noi è intelligente, non solo il pensiero. E ci ricordano che possiamo accordarci al prossimo, in modo del tutto naturale.

Perché non hai voluto ambientare il romanzo in luoghi realmente esistenti?

Sono cresciuta nella mia Valle e lì ho dato voce ai romanzi. Perciò esistono eccome, i luoghi. Rodoretto e Massello, le mie case, sono reali, così la cascata del Pis che guarda le borgate dove è ambientato Pietra dolce. Sebbene per noi ogni prato, metro di terra, grumo di case abbia un nome, ho scelto di reinventare semplicemente la toponomastica delle borgate. Raccontare cioè la mia terra per la terra di tutti, insomma, così che ognuno possa sentirsi a casa leggendo, con la libertà di traghettare la storia dove può sentirla propria. Questo senso allargato slega il confine e ci invita a liberare la bellezza delle piccole culture e delle lingue, ognuna meritevole di essere accudita coralmente, con responsabilità e nessuna paura. Per me, anche visti i tempi difficili che stiamo attraversando, il concetto cardine è liberare, piuttosto che difendere.

Ma se poi qualcuno non se la prende questa responsabilità?

Difendere significa “arretrare e colpire”. Se difendi, in qualche misura ti barrichi. L’eccesso di protezione porta a chiudersi, e chiudendosi agli altri si rischia di soffocare. Così è successo a molte lingue minoritarie, che ahimè non hanno trovato nuovi portatori. La libertà è il contrario della paura e ci invita a incontrare l’altro, sentirlo partecipe della nostra esistenza, senza timore di non essere accolti o capiti. Un punto di contatto c’è sempre, e con l’Equilibrio delle lucciole è stato evidente: lettori da ogni parte d’Italia hanno dato voce al patois scritto nelle pagine, liberamente. Certamente da oggi non è più lingua ignota, o relegata: per loro diventa una chiave in più e io gli sono grata.

Come vivi i concetti di identità e tradizione?

Io porto la mia lingua ed è già buona parte della mia identità. Non mi servono vessilli, o sovrastrutture. Il patois è la mia radice, e con quella mi tendo verso l’altro, per intrecciarmi, passare linfa, arricchirmi. Questo è la radice: non qualcosa che ci inchioda a un punto, ma il punto di partenza di tanti prolungamenti verso il prossimo, per distante che si trovi. Ci si fortifica, intrecciandosi. È un concetto a me molto caro, imparato dalle intenzioni e dall’accoglienza della mia gente. Di tradizione non parlo quasi mai, invece, preferisco concentrarmi sulla memoria, in senso prospettico. La memoria è “domani” ed è pratica, va impastata come un pane, rilavorava nei giorni con quello che impariamo e viviamo per essere consegnata a chi arriverà ancora calda. Dunque la memoria è una madia collettiva e vivifica, in cui tutti siamo farina e fornai.

Si parla molto di radice, che tutto sembrerebbe tranne che “elastica”, come la definisci tu.

Noi siamo in piena connessione con le radici dell’altro. È questione di ascolto. A me piace immaginarci come una foresta che, attraverso la rete radicale, si parla e si intreccia. In Italia, poi, non c’è nessuno che non abbia un legame con una lingua di terra – anche lontano – o di un’altra lingua venuta ad arricchire il nostro patrimonio. Abbiamo bisogno di risonanza e incontro, per non sentirci atomi sparsi. Se abbiamo perso questa consapevolezza è per colpa di una società frenetica che invita a slegarsi dall’altro e non alla bellezza. Non la puoi sentire la poesia se devi essere sempre efficiente e performante. Si finisce per dar credito alla paura e alla diffidenza, veri argini al cambiamento e alla condivisione.

Prendersi cura è un altro tema ricorrente: esiste ovunque il senso della comunità?

Badiamo tanto alle nostre differenze, a dove viviamo, in città, al mare o in montagna… E forse poco alle affinità. Sono stata cresciuta da una comunità dove i legami sono intensi ed elettivi, persino con animali e natura. “Se fiâ”, affidarsi, è il verbo che cammina al nostro passo. Credo sia possibile ovunque, indipendentemente dal luogo nel quale si vive. La compagnia, parola spesso sottovalutata, significa “dividere il pane”: cedere e ricevere qualcosa di prezioso.

È questa la “sopravvivenza”?

Sopravvivenza significa “vivere sopra, guardare dall’alto ciò che ti circonda”, Mina lo dice bene. C’è un sentimento più grande che ci unisce, non si può non avvertirlo.

La paura è oggi uno dei sentimenti più diffusi, come facciamo a superarla?

Pensiamo all’immagine del ponte, che in Pietra dolce ho voluto evidenziare. Nell’uso comune diciamo: attraversare un ponte, stare da una parte o dall’altra del ponte… come se fosse qualcosa di esterno a noi. Invece il ponte siamo noi! Quando ci intrecciamo l’uno con l’altro, prendiamo forma, creiamo passerelle solide da far attraversare a chi arriverà. Per me questo è il senso della vita. Non sarei figlia della mia montagna se stessi in silenzio di fronte a un tempo così triste in cui ci convincono che slegati siamo meglio, che il ponte è lontano. No, il ponte è qua, è dentro di te. 

Il romanzo è dedicato a tuo padre e ai minatori di ogni tempo, perché?

Se L’equilibrio delle lucciole è la mia casa interiore, Pietra dolce è l’accudimento di una promessa. Ha una genesi lunga 16 anni, poco prima che morisse papà. A Rodoretto, quel giorno, c’erano quasi tre metri di neve.  Era un uomo colto, un contadino di cultura, minatore, falegname, poetico e complesso, tranciato a metà dalla morte prematura di mio fratello e da tante croci che nel tempo gli sono costate la salute. Un giorno, mentre piantava un sorbo, come se avesse intuito in anticipo la fine del suo tempo, mi ha detto in patois: “Prometti che un giorno mi restituirai”. Allora non capivo il peso di quelle parole. Quando se ne è andato, ho ritrasformato il dolore in un disco, Lêve les yeux (si trova anche su Spotify, NdR), pensando di “restituirlo” così. Sbagliavo, perché in quel modo stavo restituendo semplicemente la mia voce sulla sua, non certo quello che lui rappresentava. L’anno scorso, mentre facevo legna sotto casa, la sua voce mi ha raggiunta: “Davvero valevo solo uno?” ha detto. Sono trasalita. Ma certo: nessuno vale singolo. Non gli interessava affatto che raccontassi la sua vita, ma la dimensione memoriale, le lacerazioni, i sogni e le speranze che sono anche quelle di tanti. Sono una musicista, e se la musica è nello spazio fra una nota e l’altra, allora per ritrovarlo pienamente avrei dovuto musicare i silenzi, ovvero tutto quello che non ci siamo detti. Da quell’intuizione sono nati i personaggi di Pietra dolce. Come un coro. Un canto plurale.

Cosa c’era in quei silenzi?

Ho trovato le mie vene di talco, come fanno i minatori. Un gesto, uno sguardo, un’attitudine, un sorriso diventano lingua ed erano quelli che andavano estratti e messi su carta. Cantare con mio padre era il nostro modo di confessare il cuore. Il canto è un disarmo, una bandiera di pace. Per scrivere L’equilibrio delle lucciole mi è servito essere la figlia di un minatore, ora invece mi si chiedeva di sondare l’invisibile, come fa un minatore, che sente la roccia tanto da intuirne le vene buone per farle brillare e portare alla luce materia preziosa. Credo di aver imparato a minare e, in qualche misura, aver alleggerito la promessa. Ovviamente il suo canto è ovunque nei personaggi.

Tu che personaggio sei?

Immagino nel personaggio di Alma, per il ruolo che ha tra le pagine, ma pure il corvo Bas, che rompe sempre le scatole. Non nego di aver sofferto, scrivendo. È un atto liberatorio, intenso, di ricostruzione del dolore. Le parole che pronuncia Lisse alla fine sono quelle che mi direbbe papà se potesse. 

Un posto particolare occupano le donne, madri che accudiscono figli non loro con un senso della cura altissimo.

Credo che la maternità non sia solamente uterina, bensì un sentimento di accudimento, proprio a tutti. È massima osservanza di qualcuno e di qualcosa. Io stessa ho un figlio, ma se mi sentissi madre solamente di mio figlio, non sarei pienamente madre. Nel libro Mina è una madre straordinaria, pur non avendo mai partorito. Così la malgara Ghit, che trova Lisse nel prato e se ne prende cura immediatamente nonostante la vecchiaia e la solitudine, o Denise, che ha l’età giusta ma è piena di paure e insicurezze. Anche la capra Beretta è madre: rappresenta le orecchie che prestiamo per ascoltare il pianto di qualcuno che ha bisogno di un nome, è il primo segno di umanità nei confronti degli invisibili, come sono i figli del mondo che muoiono ingiustamente, e dei quali siamo tutti orfani. Noi esistiamo perché gli altri ci danno un nome che da soli non possiamo darci. La mia montagna mi ha insegnato che non esistono invisibili, da qualsiasi latitudine arrivi la loro voce.

Massello in Val Germanasca. Foto @ Valeria Tron

Qual è la montagna che hai dentro?

È una materia prima, non la posso raccontare come un saggio, o come chi la vede per la prima volta. È carne, casa, dal primo all’ultimo larice. Sono tutte le mani e i cuori che mi hanno cresciuta o accompagnata e porto dentro. Sono anche le mie croci. E sono ancora lì, intrecciati per farmi attraversare la loro schiena, per farmi scavalcare il mio ponte. Come Lisse, che infatti dice agli altri di andare e liberarsi altrove, tanto resterà lui a vegliare. Per cos’altro si viene al mondo? Bisogna avere coraggio e fantasia, giacché tutto può essere ritrasformato. Ad aspettarci resterà sempre la speranza, che è tutt’altro che banale. La montagna, per come mi è stata insegnata, è questione di attitudine, non di altitudine.

Perché “siamo letteratura”?

Per indole vedo letteratura ovunque. I miei vecchi sono stati la mia prima biblioteca, sempre aperta e disponibile. L’osservazione meticolosa è la chiave di volta. In casa nostra pane e libri non mancavano mai, e con quelli ho preso a immaginare, immergermi nelle storie d’altri e ripensarle anche lassù. Per sentirmi figlia del mondo, insomma. Ogni persona, poi, è un libro che cammina e si compie nel tempo che le è concesso. La letteratura in questo senso è quanto di più umano, condivisibile e corale esista. Se spegnessimo i cellulari ogni tanto, capiremmo che un libro, una presenza reale, ci fa molta più compagnia di uno schermo, perché custodisce piccoli tesori da cavare: in Pietra dolce la miniera è anche un topos, e spero che ciascuno in base alla sua sensibilità lo voglia indagare, esplorando la miniera che ha dentro. Questo fa la poesia: nasconde chiavi, segreti, micce pronte a scalfire la roccia. Quando li trovi ti riconosci nell’altro, ed è un travaso straordinario. Scriverò finché sentirò di avere qualcosa da testimoniare, poi chissà. Magari tornerò al colore, ai legni, al restauro, allo studio, alla chitarra, con la consapevolezza di essere veicolo di letteratura anche così.