Il ritrovamento delle tende, distrutte © Wikimedia CommonsEra una fredda notte del febbraio 1959 quando un gruppo di 9 scialpinisti scomparse per sempre. Ci troviamo nel cuore degli Urali, sul Passo Dyatlov. Un luogo che sarebbe rimasto per sempre impresso nella mente e nei cuori dei soccorritori che accorsero per ricercare i nove. Davanti a loro uno scenario surreale, uno dei casi più inquietanti e misteriosi mai accaduti in montagna.
Ma facciamo qualche passo indietro. Verso la fine di gennaio un gruppo di dieci giovani ed esperti sciatori decise di sobbarcarsi uno scomodo e lungo viaggio prima in treno poi in camion per recarsi fin a Vizhai, nella provincia settentrionale di Sverdlovsk, nel cuore degli Urali, per cimentarsi nella salita del monte Otorten. A formare il gruppo il capospedizione Igor Alekseevič Djatlov; il maestro di sci Aleksandr Aleksandrovič Zolotarëv; i tre ingegneri Rustem Vladimirovič Slobodin, Jurij Alekseevič Krivoniščenko, Nikolaj Vasil’evič Thibeaux–Brignolles; e i cinque studenti Jurij Nikolaevič Dorošenko, Zinaida Alekseevna Kolmogorova, Ljudmila Aleksandrovna Dubinina, Aleksandr Sergeevič Kolevatov, Jurij Efimovič Judin. Judin sarà il più fortunato del gruppo. Colpito infatti da una malattia improvvisa si troverà costretto a rinunciare alla gita, salvandosi così la vita.
Erano quindi 9 i componenti del gruppo che il 27 gennaio inizarono l’avvicinamento alla montagna. Un lungo e faticoso itinerario prima tra folte foreste di sempreverdi, laghi ghiacciati e pacifici paesaggi carichi di neve. Tutto sembrava andare per il meglio e la fatica dell'escursione era più che ricompensata dall'armonia del gruppo e dai suggestivi panorami di questi territori ancora intonsi. La fatica vera avrebbero iniziato però a scoprirla solo il primo febbraio, quando iniziarono a salire verso il Passo Dyatlov. Nel giro di poco inziarono a notare un repentino cambiamento del paesaggio: i boschi si diradavano mentre il cielo e il bianco della neve conquistavano sempre più spazio. Motivati da queste nuove emozioni continuarono a spingere, con l'intenzione di posizionare il campo alle pendici meridionali della montagna ma, ormai a fine giornata, un repentino cambiamento della meteo li spinse a stravolgere i loro piani cercando riparo. Decisero così di posizionare il campo verso ovest ai piedi del monte Cholatčachl, che tradotto significa “Montagna della morte”.
Per ragioni che non del tutto chiare i giovani scelsero di installare le tende sopra un pendio ghiacciato e non nel bosco, che distava poche centinaia di metri, dove certamente avrebbero trovato un maggior riparo dalle intemperie. Fatto sta che, montate le tende e mangiato un pasto frugale, si prepararono per la notte, con la speranza di risvegliarsi con il sole. Quello che ancora non sapevano era che per loro non ci sarebbe stato alcun risveglio.
L'ultima foto scattata dai ragazzi, mentre preparavano la piazzola per il campo © Wikimedia CommonsCosa accadde quella notte?
Poco prima della partenza, Igor Alekseevič Djatlov, capo della spedizione, lasciò detto ai familiari di attendere un suo telegramma entro il 14 febbraio: sarebbe stato il segnale del loro ritorno. Ma quel telegramma non arrivò mai. I giorni passavano e con essi cresceva l'angoscia dei parenti dei nove giovani, finché, ormai disperati, si rivolsero alle autorità. Il 20 febbraio, una squadra imponente si mise in marcia verso le montagne degli Urali. Polizia, esercito, studenti e insegnanti del Politecnico si unirono nella missione di ricerca, determinati a riportare a casa i ragazzi, o almeno qualcuno di loro. Erano ignari della scoperta sconvolgente che li attendeva.
Le prime tracce del gruppo emersero solo il 26 febbraio, nascoste tra le pieghe della neve: una tenda lacera, abbandonata. La tela era strappata dall'interno, un dettaglio che suscitò subito domande inquietanti. E lì, all'interno, nessuno. Tutt'intorno, solo impronte che si allontanavano come in una fuga improvvisa, dirette verso il fitto del bosco.
A circa 500 metri, sotto un grande cedro, i soccorritori trovarono il fuoco spento e i corpi senza vita di Jurij Nikolaevič Dorošenko e Jurij Alekseevič Krivoniščenko, morti, sembra, per ipotermia. Giacevano in biancheria intima, come se la fuga dalla tenda fosse stata talmente disperata da non lasciare il tempo di vestirsi. Poco più avanti, in quello spazio tra il cedro e l’accampamento, trovarono altri tre ragazzi, tra cui lo stesso Djatlov. Ma degli altri quattro non vi era traccia.
Fu solo dopo quattro mesi che i corpi di Nikolaj Vasil’evič Thibeaux-Brignolles, Aleksandr Aleksandrovič Zolotarëv, Ljudmila Aleksandrovna Dubinina e Aleksandr Sergeevič Kolevatov vennero alla luce, sepolti sotto due metri di neve in un burrone nel bosco. Erano distanti circa 500 metri dai primi ritrovamenti, ma la scena che si rivelò davanti agli occhi dei soccorritori era ben più macabra. I loro corpi presentavano lesioni terribili: costole spezzate, crani fratturati, e Ljudmila, trovata priva di lingua, con parte della mascella e gli occhi mancanti. Eppure, inspiegabilmente, su nessuno di loro erano visibili segni esterni di trauma, come se una forza invisibile li avesse colpiti dall’interno.
Gli investigatori, sconcertati, descrissero le ferite come frutto di una potenza paragonabile a quella di un violento incidente d’auto, ma senza urti esterni. Ogni cosa pareva impossibile. Gli indumenti dei ragazzi, poi, mostravano livelli inspiegabili di radioattività, e fra i resti vennero trovati anche frammenti metallici di cui non si è mai riusciti a chiarire la provenienza. Anni dopo, una spedizione nella stessa zona raccontò di aver visto nel cielo sfere luminose e arancioni, identiche a quelle che i residenti della cittadina di Ivdel affermarono di vedere per mesi nel cielo sopra la città. Le autorità liquidarono il fenomeno dicendo che si trattava di missili R-7, ma il mistero era ben lungi dall’essere risolto.
La parte più inquietante di questa storia è l’assenza totale di risposte. Secondo i primi rapporti degli investigatori, la notte del 2 febbraio del 1959 un evento misterioso costrinse i giovani ad abbandonare la tenda in fretta, senza preoccuparsi di indossare i vestiti. Probabilmente fuggirono verso il grande cedro, dove Dorošenko e Krivoniščenko, cercando disperatamente di sopravvivere, tentando anche di arrampicarsi sull'albero. Il gelo fu fatale. Dopo anni di inchieste, le autorità chiusero il caso senza spiegazione. E per ragioni che restano anch’esse avvolte nel mistero, l’intera area venne dichiarata off-limits per i tre anni successivi.
la lapide in ricordo dei 9 giovani scomparsi sul Passo Dyatlov © Wikimedia CommonsLe ipotesi
Attorno a questa tragedia, ancora oggi avvolta nel mistero, si susseguono teorie di ogni genere. Una delle prime ipotesi puntò il dito contro i Mansi, abitanti locali che, secondo alcuni, avrebbero attaccato il gruppo costringendolo a una fuga disperata. Tuttavia, l’assenza di segni di colluttazione e la totale mancanza di altre impronte sulla neve, oltre a quelle degli escursionisti, rende poco credibile questa ipotesi. Più plausibile, almeno secondo Judin, l’unico sopravvissuto della spedizione, è che i suoi amici abbiano accidentalmente invaso un’area destinata a test militari, finendo vittime di un esperimento andato storto.
Per altri, invece, la risposta risiederebbe in una “paranoia da valanga”: il boato potente e sinistro di una slavina in arrivo avrebbe spinto i ragazzi a uscire dalle tende in tutta fretta per cercare rifugio nel bosco. C’è anche chi ha ipotizzato una “tempesta perfetta” che, con piccoli e potenti vortici di vento, avrebbe devastato l’accampamento, generando onde di infrasuoni impercettibili ma destabilizzanti per la psiche. Sotto l’effetto di questi suoni, gli escursionisti, già stremati dal freddo e dalla mancanza di sonno, sarebbero stati colti da un raptus di panico, finendo per fuggire nel gelo senza attrezzatura.
Le ipotesi più inquietanti e fantasiose suggeriscono invece che il gruppo sia stato coinvolto nella sperimentazione di armi sovietiche segrete. Lo scrittore Anatoly Guschin, ad esempio, avanzò la teoria che i ragazzi fossero stati vittime di un’arma non convenzionale. Altri ancora, interpretando i numerosi avvistamenti delle misteriose sfere arancioni nel cielo di Ivdel come un segno, arrivarono a ipotizzare che fossero stati attaccati da entità aliene.
Unica certezza è che a distanza di decenni, il mistero del Passo Djatlov rimane come un’ombra lunga, un enigma sospeso tra le pieghe della montagna e della memoria, come se le nevi degli Urali custodissero un segreto che nessuno potrà mai strappare. Le ipotesi si sovrappongono come veli, ciascuna offrendoci una visione frammentaria e inquietante, ma nessuna riesce a penetrare davvero quel silenzio immobile che ha inghiottito i nove ragazzi. E così la loro storia continua a evocare una domanda senza risposta: cosa ha davvero spezzato la loro quiete quella notte?