Paolo CognettiPaolo Cognetti, divenuto famoso con la pubblicazione de Le otto montagne, titolo vincitore del Premio Strega, ha recentemente rivelato la sua lotta contro la depressione in un’intervista a La Repubblica. Un racconto intimo e struggente che lo vede passare dall’apice della carriera artistica al ricovero in un reparto di psichiatria, mostrando quanto il successo possa avere un prezzo doloroso.
Cognetti, all’apice del successo con l’imminente uscita del suo film Fiore Mio, ha vissuto un periodo di profonda crisi psicologica. “In primavera e d’estate, senza un apparente perché, sono stato morso dalla depressione” ha raccontato. Un episodio culminato il 4 dicembre con un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), ordinato dal medico a seguito di comportamenti anomali che avevano allarmato amici e familiari. “Mi sono ritrovato sotto casa un’auto della polizia e un’ambulanza. Sono stato sedato e, a causa dei farmaci, non ho fatto che dormire”.
La sua crisi, vissuta anche tra fasi maniacali che lo hanno portato a gesti impulsivi, come inviare immagini personali o fare regali di denaro, è un monito potente su quanto il disagio mentale possa colpire chiunque, indipendentemente dal contesto o dai successi raggiunti. “Nelle fasi maniacali si può perdere il senso del pudore, o quello del denaro. Io ho inviato ad amici immagini di me nudo e ho regalato in giro un sacco di soldi”.
La solitudine e la pressione del successo
Cognetti non attribuisce la depressione a una causa precisa, ma descrive il senso di vuoto successivo al grande successo di Le otto montagne. “Mi sono chiesto: e adesso cosa faccio? Forse ho temuto che il massimo fosse già stato raggiunto”. La popolarità, secondo lo scrittore, ha un peso significativo, spietato nella sua capacità di isolare. Anche la natura, che era stata rifugio e ispirazione, è diventata silenziosa: “Un bosco era solo un bosco, un torrente solo un torrente. Perfino un albero non mi diceva più nulla”.
L’esperienza del ricovero non è stata semplice. “In ospedale ai medici devi obbedire. Ti svegliano alle sei del mattino e ti obbligano a bere tranquillanti. Sei vivo, ma è come se fossi morto”. Il reparto psichiatrico, con le sue regole e restrizioni, ha rappresentato per Cognetti un luogo freddo e distante, in netto contrasto con l’amata libertà delle montagne.
Eppure, nella difficoltà, Cognetti ha trovato anche un messaggio di speranza e un invito alla riflessione. “Vivere è la sola cura possibile" afferma, indicando negli affetti e nella semplicità della vita quotidiana le sue fonti di forza per il futuro. “Vorrei cinque o sei amici sinceri, una famiglia vera e un’agenda vuota per sei mesi”.
Un potente promemoria sull’importanza di affrontare il disagio psichico senza vergogna, cercando aiuto e supporto, quello che ci lascia Paolo. Vivere significa anche affrontare il dolore, accettarlo, e cercare una strada verso la luce, sia nelle vette montuose che nell’intimità delle relazioni umane, afferma Cognetti in conclusione. “Alla fine, anche per me è vivere la cura per riuscire a vivere".