Otemma: il deserto bianco

Dopo quasi nove ore non sappiamo più dove nasconderci né quanti occhiali indossare; il riverbero è così forte e la radiazione riflessa così bollente da avere la sensazione di stare in un forno. Non c'è ombra, non c'è scampo. Nelle ore centrali ci rendiamo conto di essere davvero vulnerabili. È una sensazione diversa dal caldo estivo, perché l'aria è ancora frizzante, mentre tu vai a fuoco.

È un normale mercoledì di una normale settimana, ma la sveglia suona prepotentemente alle quattro di mattina. Socchiudo gli occhi e vedo gli sci e lo zaino già pronti appoggiati al muro. Sospiro, oggi sarà una giornata intensa. 

Attraverso la città silenziosa e vuota a piedi; non corrono mezzi a quest'ora. Mauro, uno dei miei professori di glaciologia, dieci anni più di me e completo Norrona blu, mi aspetta di fronte all'università con il furgoncino. È per questione di orario che non ci muoveremo in treno, ma le giustificazioni per aver poi fatto ricorso ad un elicottero me le devo ripetere più volte: strada di accesso chiusa per lavori, pericolo valanghe, almeno due giorni di avvicinamento, materiale ingombrante e non proprio leggero.

Non vedo l'ora di essere nuovamente sul ghiacciaio d'Otemma, uno dei posti più remoti che io abbia mai visitato. L'estate scorsa l'avevo percorso in lungo e in largo per installare alcune stazioni meteorologiche. Quest'anno, i primi di maggio, è previsto il consueto bilancio di massa invernale, volto a misurare la neve accumulata durante la stagione fredda.

 

© Marta Corrà - Il lago di Mauvoisin dall'elicottero

Dal rapido, traballante, estremamente rumoroso ma adrenalinico volo, ci ritroviamo catapultati a quota tremila metri. I due piloti ci aiutano a scaricare velocemente il materiale, risalgono a bordo, chiudono il portellone. Noi ci accucciamo sugli zaini, poi il rombo della ripartenza, una tagliente folata di cristalli di neve, e siamo soli.

Soli in un deserto bianco. 

Ci guardiamo attorno in silenzio. Per almeno un minuto siamo assorti, attoniti, immersi, ci prendiamo del tempo per “acclimatare” i nostri occhi a tanta sconfinata purezza. Si spazia dalla meravigliosa Aiguille de la Tsa, alla Dent Blanche, dal piccolo al grande Mont Collon. Respiro a pieni polmoni l'aria secca e rarefatta. Mi sento viva, lucida.

© Marta Corrà - Vista sul ghiacciaio dal Col de Charmotane, 3049

 

Per tutto il giorno l'unico costante rumore sarà quello dei nostri sci che slittano sulla neve prima crostosa, poi cedevole. Ci fermeremo solo per infilzare la neve con il lungo bastone, sino a toccare l'impenetrabile superficie del ghiacciaio, e scriverne l'altezza a matita su un foglio di carta. Non più di quattro metri, in nessun punto, questo il verdetto. E le due volte che decidiamo di ricavare la densità del manto nevoso, scopriamo che i valori sono bassissimi. Sarà questo il problema quest'anno: la neve se ne andrà veloce e leggera così come è caduta.

 

E così come siamo arrivati, è arrivato anche per noi il momento di tornare.

Dopo quasi nove ore non sappiamo più dove nasconderci né quanti occhiali indossare; il riverbero è così forte e la radiazione riflessa così bollente da avere la sensazione di stare in un forno. Non c'è ombra, non c'è scampo. Nelle ore centrali ci rendiamo conto di essere davvero vulnerabili. È una sensazione diversa dal caldo estivo, perché l'aria è ancora frizzante, mentre tu vai a fuoco. Ormai anche il mio cervello è bollito. Non pensavo potesse rivelarsi questo, il muscolo più dolente a fine giornata. Forse è un po’ come correre per parecchi chilometri o pedalare per ore, quando ci si scava a fondo, fino a ritrovarsi più vuoti e confusi che mai.

© Marta Corrà - Misurazioni lungo il ghiacciaio

 

 

© Marta Corrà - Rimedi al forte riverbero proveniente dalla neve

Al parcheggio, saluto Mauro. Gli sono davvero grata per questa giornata, e so che ci si ritroverà presto per discutere sui dati raccolti. Io trovo un passaggio verso Briga da una gentile guida alpina di nome Michi. Il mio piano è di prendere poi il treno per Domodossola, cambiarmi velocemente i vestiti nella mia macchina sempre lì ferma parcheggiata, prendere il saccone d'arrampicata con tanto di corde doppie e saltare sull'ultimo treno per Milano. Nel bagno del treno, ormai alle dieci di sera, noto il mio collo ustionato, e sorrido, come se me lo fossi guadagnata, come se mi caratterizzasse. Che stanchezza. In Centrale, un amico mi aspetta euforico, e mi lascio guidare verso nord. La mia giornata e i miei occhi si spengono del tutto dopo 23 ore. 

Quando li riapro, la Val Masino accoglie il mio corpo ancora stanco.

© Marta Corrà - Dopo 8km, andando verso la fronte del ghiacciaio