Nuove sfide per le montagne del futuro: Il CAI di domani

Le "tre generazioni" del Club Alpino Italiano in una riflessione scaturita dal 101° Congresso Nazionale di Roma.
Ph. Fabio De Villa © Fabio Villa. Archivio CAI

Il 101° congresso di Roma credo abbia rappresentato il simbolo di un rinnovamento generazionale necessario e possibile in oltre 160 anni di storia del Club Alpino Italiano. Il congresso ha posto la “terza generazione” dei dirigenti CAI di fronte alla necessità di affrontare sfide di dimensioni nuove. 

La “prima generazione” è stata quella dell’Ottocento, quando il CAI di Quintino Sella fu chiamato a costruire l’identità nazionale, applicando il motto di Cavour (“Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli Italiani”). Era un CAI elitario, espressione di una borghesia illuminata e della nuova classe dirigente dell’Italia liberale e postrisorgimentale. Il “progetto politico” di Quintino Sella, nell’ascensione al Monviso nel 1863, prevedeva una somma di simboli: l’alpinismo come affermazione di italianità (la nascita di un Club Alpino nazionale), il contrasto allo strapotere degli Inglesi (le Alpi come playground of Europe), una cordata “nazionale” (Giovanni Baracco era calabrese, simbolo di un Sud da includere), il “grande fiume” e la sorgente di vita di una nazione nascente. Furono i decenni delle “quattro rosine”: le sezioni CAI a sud del Monte Rosa (Varallo, Biella, Domodossola e Intra). Quegli uomini volevano unire il “sentimento della natura” ed il “concetto della patria”. Ci riuscirono. 
La “seconda generazione”, dopo gli anni bui del Fascismo quando il CAI fu “nazionalizzato” e sottomesso al regime, fu quella del secondo dopoguerra del Novecento. Se la prima generazione aveva costruito l’Italia, la seconda l’aveva ricostruita dopo le macerie della guerra, contribuendo alla ricostruzione sociale e culturale dell’Italia. L’alpinismo come nuova espressione di libertà per tutti. Non più i borghesi in montagna, ma operai e contadini che prendevano in mano, anche nel tempo libero, il proprio destino. Fu il CAI del “quarto stato” e quei dirigenti seppero trasformare il sodalizio in organizzazione di massa che oggi conta oltre 300.000 soci (nel 1870 erano 288).  

La “terza generazione” è quella degli anni Duemila quando il CAI è chiamato a sfide nuove e inedite: la costruzione di una nuova cultura delle terre alte, il confronto con una società digitalizzata e globalizzata, l’ancoraggio all’alpinismo ma anche la nuova dimensione sociale dell’escursionismo (azione, contemplazione, conoscenza), il coinvolgimento dei giovani, la necessità di una tutela assoluta della natura e della biodiversità. Le due generazioni precedenti assolsero con dignità e successo i compiti che la Storia aveva loro assegnato. L’augurio ad Antonio Montani e a tutti noi è quello di affrontare insieme queste sfide e vincerle. Non tanto per noi, quanto per i nostri figli e nipoti. 

Nel 1883 si tenne ad Intra, sul Lago Maggiore, l’incontro annuale delle “Quattro Rosine”. Dai verbali emergono ideali inesausti. Per la sezione di Domodossola intervenne Giovanni Belli: “Il tempo dell'Alpinismo non è, né sarà mai terminato. Noi dobbiamo lasciare ai nipoti l'eredità delle cognizioni alpinistiche acquistate, i quali le conserveranno ed accresceranno per trasmetterle vieppiù ricche ai loro discendenti. Lo scopo dell'Alpinismo italiano non è così aspro e duro come quello dell'Alpinismo inglese; esso oltre alle escursioni ed alle salite sulle alte vette, si propone parecchi altri scopi di grande utilità”. Una lezione feconda.