Matteo Della Bordella durante la salita © Archivio Della BordellaSono rientrati tutti a casa i partecipanti della spedizione internazionale, sostenuta e patrocinata dal Club alpino italiano, che aveva come obiettivo l’inviolato pilastro est dell’Ogre, in Pakistan. Qualche settimana fa abbiamo avuto modo di ascoltare il racconto del tentativo portato avanti dal gruppo, composto da Matteo Della Bordella, François Cazzanelli, Silvan Schüpbach e Symon Welfringer.
«L’unica possibilità di attaccare il pilastro durante un eterno mese di spedizione, caratterizzato da pioggia intensa e nevicate. L’anomalo effetto del monsone», ci ha spiegato Cazzanelli.
Viste le condizioni, il gruppo, dopo un’attenta valutazione, ha saputo individuare un obiettivo altrettanto attraente e capace di emozionare: il Baintha Kabata (6250 m). Su questa bella montagna, lungo la parete sud, Della Bordella, Schüpbach e Welfringer (Cazzanelli era rientrato in Italia per impegni lavorativi) hanno tracciato una nuova linea, chiamata “The Alien Face”, prima di fare i bagagli e rientrare verso casa con un po’ di delusione, ma con la soddisfazione di un bell’itinerario su una vetta slanciata e difficile. Leggiamo quello che ha da raccontarci Matteo Della Bordella, da poco rientrato in Italia, su questi ultimi giorni di spedizione.
La linea di salita © Archivio Della BordellaMatteo, prima di raccontarci la vostra salita ci fai un veloce riassunto su com’è andata la prima parte di spedizione?
«Certo. Siamo partiti molto bene, acclimatandoci in pochi giorni. Siamo anche riusciti a dormire una notte a quota seimila, dove ho festeggiato il mio compleanno con un’alba spettacolare. Poi, dopo il rientro al campo base, abbiamo iniziato una lunga e snervante attesa. Il brutto tempo ci ha stretti in una morsa che, piano piano, ha logorato ogni speranza».
Condizioni normali in quest’area del Karakorum?
«Ci hanno spiegato che quest’anno il monsone è stato più forte del solito e leggermente decentrato rispetto all’area che generalmente copre. Così ci ha raggiunti. Quando da casa annunciavano 2mm di pioggia noi assistevamo a diluvi torrentizi, con decine di millimetri di acqua al suolo. Condizioni che ci hanno subito fatto capire che non avremmo avuto molte speranze di poter affrontare il pilastro est dell’Ogre».
Nonostante questa consapevolezza, avete comunque voluto fare un tentativo.
«Si, ma siamo presto stati costretti alla ritirata, sotto a una fitta nevicata. Una decisione presa come conseguenza delle difficoltà oggettive della montagna. Le maggiori difficoltà sull’Ogre si concentrano infatti nella prima parte, fino al colle. Se invece fossero state nella parte alta avremmo potuto scegliere di continuare ed eventualmente rinunciare più avanti, dopo aver compreso la situazione. In questo caso invece la miglior decisione da prendere era quella di evitare di ritrovarci bloccati sulla montagna, senza possibilità di poter fare ritorno in sicurezza al campo base. È stato un momento difficile, come tutti quelli venuti dopo. Ci eravamo allenati e preparati. Eravamo motivati e concentrati. Alla fine abbiamo passato tre settimane al campo base, ad ascoltare il suono dell’acqua battere sulla tenda».
Poi, l’idea di una nuova via sul Baintha Kabata. Com'è nata?
«Dalla voglia di scalare, nonostante le condizioni. Sulla montagna sapevamo poco, ma era bella e slanciata con la sua forma piramidale. Ci piaceva. Poi il suo nome significa “figlio dell’Ogre”, sarebbe stata una bella alternativa e la roccia prometteva bene. Prima di noi aveva già visto un salitore raggiungerne la vetta: Colin Haley, nel 2008, seguendo lo spigolo del pilastro sud. Noi invece abbiamo deciso di attaccare più a sinistra, lungo la parete sud».
Avete realizzato la salita in soli due giorni, corretto?
«Esatto. Putroppo François non ha potuto unirsi a noi perché, causa ragioni lavorative, ha dovuto fare rientro qualche giorno prima. Con Silvan e Symon abbiamo deciso di provarci ed è stato entusiasmante. Subito la parete si è rivelata difficile, ma la roccia era davvero eccezionale e ci ha permesso di raggiungere un nevaio a 6000 metri, dove abbiamo bivaccato intagliando una piazzola.
All’alba siamo poi ripartiti per la vetta, su una sezione molto impegnativa, in fessura».
Dalla traccia che ci hai fornito leggiamo che una parte della via è in comune con la via di Haley.
«Si, circa 150 metri nella sezione centrale. Ma non ne siamo certi, però sembra così a osservare le foto e le linee disegnate sulla montagna».
La salita © Archivio Della BordellaQual è stato il tiro più duro?
«L’ultimo, un 7a terminato sulla cima, con il panorama a 360 gradi e l’Ogre che ci osservava. Sembrava quasi di poterlo toccare allungando la mano. È stato bello, anche se la vetta non ce la siamo potuta godere molto. La meteo stava infatti di nuovo peggiorando, così abbiamo subito iniziato le doppie per il rientro al campo».
Insomma, la meteo non vi ha lasciato nemmeno il tempo di gioire per la bella salita.
«Devo ammettere che ci ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Il posto è veramente spettacolare, diverso da tutte le altre montagne che ho visitato fino a ora. Le dimensioni sono enormi, e aiutano a capire la portata del progetto. Noi dal campo base avevamo l’Ogre davanti, e sembrava quasi di poterlo afferrare con un soffio. In realtà c’erano 23 chilometri in linea d’aria tra noi e la parete e ogni viaggio significava spendere quattro ore di tempo».
Vorresti riprovare?
«Al momento non saprei. Sicuramente in futuro vorrei tornare in questa zona, ma non sarà la mia prossima spedizione».
Della Bordella in vetta con il gagliardetto del Cai © Archivio Della Bordella