Non chiedetemi un tweet, per parlare di natura ci vuole tempo. Intervista a Daniele Zovi

L'ex guardia forestale e divulgatore appassionato di boschi e animali selvatici racconta le sue scorribande alpinistiche in occasione della pubblicazione dell'ultimo libro, "Sulle Alpi. Un viaggio sentimentale".
Daniele Zovi

Il senso del nuovo libro di Daniele Zovi sta tutto nel sottotitolo: Sulle Alpi. Un viaggio sentimentale (pp. 232, 20,90 euro, illustrazioni di Piero Macola, Cortina 2024). Un libro “slow” che non si può leggere di fretta, pacato come il ritmo della vita in montagna, a ricordare che prenderci qualche pausa dalla “società dell’accelerazione”, come la chiama il filosofo tedesco Hartmut Rosa, è possibile, addirittura necessario. «Non chiedetemi un tweet, una riflessione sulla natura ha bisogno di tempo» spiega spesso ai suoi numerosi lettori, come quelli appena incontrati a Pordenone Legge. A cui regala citazioni raccolte in 30 anni di appunti, a strappare pensieri e parole a poeti e filosofi, da Rilke a Neruda e Nietzsche: ogni capitolo ne presenta una e tutte lasciano il segno. La piccola bibliografia finale invita all’approfondimento personale.

Vicentino di Roana, classe 1952, una casa a metà fra Vicenza e l’Altopiano di Asiago, Zovi nella sua prima vita è stato un forestale arrivato al grado di generale di brigata del Comando Carabinieri-Forestale del Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. I boschi gli sono sempre piaciuti, fin da quando ci passava ore a far battaglie con i compagni di classe, all’epoca in cui i genitori non si preoccupavano se i “tosi” sparissero per tutto il pomeriggio. “La mia passione ha coinciso con il mio lavoro” afferma con umiltà, mentre negli occhi ancora gli sorride il bambino che correva a perdifiato all’ombra dei faggi, i suoi preferiti: “Se fossi un albero sarei un faggio, senza dubbio: ha radici robuste, con rami grossi fin dalla base che vanno in tutte le direzioni, da bambino mi ci arrampicavo sempre. E poi ha la pelle liscia come una ragazza di 18 anni, come scherzava un mio collega”. Oggi quei faggi li guarda con una consapevolezza diversa, ma dentro batte lo stesso cuore.

Prima scriveva racconti solo in privato. Dopo la pensione è uscito allo scoperto, se si può dire, e ha iniziato una seconda vita come scrittore, per spiegare a tutti, anche ai bambini, con tono divulgativo lontanissimo da ogni tecnicismo, la vita segreta degli alberi, come in Alberi sapienti, antiche foreste (2018), forse il suo libro più famoso, definito dall’editore Utet un “saggio narrativo”. Ma anche a non avere paura degli animali selvatici che tornano a popolare l’Italia (per esempio in Italia selvatica, 2019). Per la Rivista del CAI cura una rubrica dedicata proprio a questi temi. Con I racconti dell’inverno a maggio ha vinto il “Green Book”, premio nazionale di letteratura naturalistica, la cui giuria era presieduta da Giuseppe Festa.

 

 

Daniele Zovi, la nostra società vive un grande bisogno di natura e di montagna in particolare. È un bene secondo lei, che lo ha sempre avuto? 

«È un bene che oggi le persone vivano questo bisogno di natura, ma andrebbe direzionato. Amare la natura significa anche interrogarsi su come è fatta, conoscere le regole di base del funzionamento di un ecosistema, sapere distinguere un abete da un faggio, per chiamare ciò che ti circonda con il suo nome. Che senso ha frequentare un posto per 30 anni e non sapere almeno 4-5 nomi di piante? È davvero amore per la natura?

 

È un bisogno ancora “troppo umano”?

Sì, rimane in superficie. È bello poter vedere le tracce degli animali, soprattutto partendo presto al mattino, ma se è un lupo allora no, bisogna toglierlo di mezzo perché non mi fa sentire sicuro. La natura la si vuole sempre addomesticata.

 

“In natura” spesso si va a cercare il silenzio e la solitudine, ma alla fine non si è poi così soli, siamo solo incapaci di leggere le “connessioni invisibili”: anche in un bosco isolato siamo in compagnia di altri esseri viventi. 

Ce ne sono tantissimi, molti non li conosciamo ancora. Ma noi contemporanei oggi sappiamo una cosa in più rispetto ai nostri padri, che io avevo intuito da tempo: gli alberi comunicano tra loro e con gli animali, la scienza ce lo ha dimostrato. Si aiutano fra di loro e sotto i nostri piedi scorre una rete fatta di radici e funghi che mette in condivisione sostanze nutritive a chi ne ha più bisogno. Significa che entrando in un bosco non vediamo più un insieme di arbusti e animali come se fosse una somma di diversi fattori, ma una comunità complessa in cui si svolgono molte relazioni che abbiamo capito solo in parte, ma che si fondano sulla solidarietà. Ecco perché io consiglio sempre di chiudere gli occhi quando ci si trova dentro a un bosco, per sentire gli odori, i rumori, l’aria che passa, appoggiare le mani a terra per sentire l’umido del muschio e della felce, la rugosità del tronco. Gesti semplici che non costano niente. È inevitabile sentirci allora in connessione.

Camillo Sbarbaro, che non fu solo un poeta, ma un lichenologo di fama internazionale, lo aveva capito quando componeva i suoi erbari di cui parla all'inizio del libro?

Sicuramente, perché per me la poesia è come la neve: cancella il superfluo e lascia l’essenziale. I poeti nel loro scrivere pesano ogni parola, tagliando quelle che non servono, e in questo modo colgono il sottotesto, colgono ciò che non è visibile. Grazie alla loro sensibilità afferrano la forza della natura più di altri.

 

È un libro pieno di chilometri, dalle Alpi Marittime a ovest fino alle Giulie a est.

Perché ho vissuto una vita lunga e intensa… Ho voluto nominarle tutte, le Alpi, in onore della filastrocca che ci insegnavano a scuola, “ma con gran pena le reca giù”… Scavando tra i miei ricordi mi sono reso conto di averle davvero percorse tutte, seppure in maniera parziale, come dichiaro, non sono mai stato in cima al Bianco o al Cervino, a me non interessa il record.

 

“Non sarai uno scalatore, ma sei un alpinista”, le ha detto Nives Meroi… 

È stata molto generosa… 

 

La montagna del cuore?

Le Alpi sono molto diverse, quelle occidentali sono più severe e rigide, quelle occidentali più accoglienti, anche se verso la Slovenia, come la Carnia e il Mangart, diventano di nuovo selvagge. Le Dolomiti sono quelle che ho frequentato di più, vivendo in Veneto, ma nel cuore c’è il Civetta. Mi pare la più bella, anche se ha una ferrata che mi ha fatto soffrire, per colpa della mia testardaggine. Ma sono molto legato alle piccole montagne dell’Altopiano, che continuo a frequentare, perché tornare sempre nello stesso posto, quando si è in natura, in realtà è un viaggio nuovo ogni volta. Scopro sempre cose che prima non avevo notato, o approfondisco ciò a cui avevo dato solo una sbirciatina. Come i licheni.

 

Il libro è dedicato ai suoi “avi montanari”, perché non bisogna recuperare solo la connessione con la natura, ma anche tornare a pensarci come parte dell’evoluzione umana.

I miei avi sono tutti montanari. Noi dobbiamo pensare alla montagna non solo come a un’eredità che abbiamo ricevuto, ma anche a qualcosa che ci ha preceduto, e che è stato in parte forgiato da chi è venuto prima di noi, che siamo solo un capitolo piccolo, forse insignificante di una lunghissima storia. Per questo ho voluto citare i Romani e Annibale, perché quello che noi vediamo oggi è una risultante di tante azioni portate avanti nella storia. Con il progredire della civiltà, ci siamo dimenticati di far parte di quel passato e ci siamo allontanati dalla natura: diciamo “andare in natura” senza più pensare che anche noi ne facciamo parte. Proviamo fastidio verso gli animali selvatici, e li eliminiamo, come se fossimo noi i padroni, gli unici a poter decidere, come fanno in Trentino con gli orsi e ovunque con i lupi. Iniziamo a capire cosa ci sta intorno: basterebbe quello a riempirci la vita.