Nives Meroi: "Io e Romano abbiamo la stessa curiosità di sempre per le montagne"

Nives Meroi, insignita della Menzione Speciale per l'alpinismo femminile da parte dell'organizzazione del Piolet d'Or si racconta. Insieme al marito, Romano, non ha perso il gusto per l'esplorazione: "Negli anni si cerca di vivere le cose con un'attenzione più mirata".
Nives Meroi e romano Benet

Nives Meroi è un'alpinista che ha bisogno di ben poche presentazioni: seconda donna al mondo a salire i 14 Ottomila del pianeta senza ossigeno supplementare, ha legato la propria vita a Romano Benet, con cui ha scalato le cime più alte del mondo e tante altre vette meno famose. L'ultima spedizione della coppia è terminata a fine primavera, quando sono tornati senza cima dal Kangbachen, nel gruppo del Kanchenjunga. “Abbiamo avuto un po' di problemi con il meteo, abbiamo trovato davvero brutto tempo. La via che volevamo fare era in pessime condizioni. Un peccato perché era un bellissimo couloir di 2800 metri. Avevamo già tentato la montagna da un altro versante nel 2019, ma a metà percorso avevamo trovato una serie di crepacci insuperabili in due, in stile alpino. Qua avevamo tutto il paretone a disposizione, pazienza”.

È recente invece la notizia che la vuole insignita della Menzione Speciale per l'alpinismo femminile da parte dell'organizzazione del Piolet d'Or, riconoscimento introdotto quest'anno per celebrare l’alpinismo femminile con una Menzione Speciale a una spedizione formata da sole donne che abbiano completato un’ascesa significativa su una grande catena montuosa, oppure a una o più alpiniste che abbiano avuto un ruolo di primo piano in una spedizione mista, oppure a una sola alpinista. La Meroi è la prima a ricevere questo riconoscimento, con la seguente motivazione: “A differenza di molti alpinisti che sembrano rinunciare all’alpinismo di ricerca dopo il loro viaggio attraverso le vette di 8000 metri, Meroi ha continuato a tentare importanti salite ad alta quota, come il Kabru e un tentativo più recente sullo Yalung Peak. Mostra anche un grande rispetto per la verità.  La trasparenza sulle sue imprese ha per lei di un’importanza fondamentale”.

Sullo Yalung Peak, 2024 © N. Meroi


Tornerete al Kangbachen?

Ci piacerebbe, ma non è una fissazione. Ci sono così tanti posti dove andare, vedremo. Anche perché io mi sento una ragazzina dentro, ma poi mi guardo allo specchio e devo scendere a patti con l'età. Ci vorrebbero più vite per scalare tutto quello che uno vorrebbe. D'altronde in alpinismo sono più le vette a cui uno rinuncia che quelle che raggiunge.


Avete scalato una vita insieme. Con tutte le difficoltà del caso, è una grande prova d'amore...

In realtà in Himalaya a 8000 metri non c'è proprio niente di romantico. Ogni passo che si fa in su bisogna poi farlo anche in giù e nella cordata ognuno deve essere responsabile di sé stesso e avere autodisciplina.


Volevo dire: non deve essere semplice trovarsi sempre in accordo sulle decisioni da prendere. Ci vuole affiatamento.

Sicuramente affinità. Ma poi si arriva al punto in cui una decisione va assunta in ogni caso e deve essere quella giusta, per cui le cose prendono l'unica direzione che possono prendere. Prima si discute e si litiga anche, è normale. Io dico sempre che noi potremmo essere oggetto di studio per le dinamiche di coppia ai diversi gradi di ipossia (ride, ndr). Una volta ci dicevamo che avremmo fatto i conti a casa, ora riusciamo a litigare anche a 7000 metri...il punto è che lui ha la sua tecnica: è più forte e accelera, mette quei cento metri di distacco che per me sono impossibili da recuperare. Lo seguo con il dito alzato...


La tua passione per le montagne è iniziata però prima dell'incontro con Romano.

Ho iniziato a 15 anni perché, come molti altri adolescenti, non avevo niente altro da fare. Ho cominciato con gli amici, è stata una crescita graduale: prima le camminate, poi le ferrate, le scalate. Non si smanettava con il telefonino, si facevano le cime di cui ti dicevano qualcosa, di cui venivi a sapere. Anche per gli spostamenti, avevo il motorino, non si andava tanto lontano.


Oggi ci sono molte più informazioni, ma forse non sono più accurate.

È vero. Proprio l'altro giorno guardavamo una relazione con Romano di una via che avevamo già fatto e ci dicevamo: ma qui è tutto diverso da come l'abbiamo trovata noi. Su internet si trova moltissimo, ma le informazioni che ricavi dall'interazione con le persone hanno un valore diverso.


Come descriveresti le Giulie a chi non le ha mai viste? Sono montagne particolari.

Sono state a lungo poco frequentate per motivi storici, erano la riga di divisione tra due mondi. Se sbagliavi la traccia rischiavi di trovare le guardie di frontiera che ti portavano di là. E poi trovi vie impegnative per gli standard moderni, soprattutto per quanto riguarda la lettura. Magari trovi sei-sette chiodi su 700 metri, bisogna sapersi muovere. Sono cime ancora tutto sommato poco frequentate, basse ma con dislivelli molto elavati perché si parte da fondo valle. Il Mangart è alto poco più di 2500 metri, ma sono montagne che riescono a insegnare molto, sono una scuola fondamentale per imparare l'autosufficienza, la responsabilità. E poi fa freddo, o meglio, faceva freddo. Sono state una palestra fondamentale per l'Himalaya.

 

Nives nel 1994 sulla via dei Giapponesi al K2, quota 8300 metri circa © R. Benet


Negli anni c'è qualche Ottomila a cui ripensi e che è diventato più o meno importante nei tuoi ricordi rispetto a quanto non lo fosse sul momento?

Non saprei, io sono piuttosto lenta nell'elaborazione dei pensieri e in fin dei conti mi sono resa conto che, ripensando alle varie spedizioni, ognuna è stata un pezzo del puzzle. La montagna ci fa da specchio, porta a una maggiore conoscenza di noi stessi.


Con il tempo è cambiato il vostro approccio alla spedizione? Chi dei due è il trascinatore e chi segue?

Io sono della vergine, voglio che tutto sia programmato ben benino, tutto in ordine. Lui invece è l'estroso. Questa è la base, negli anni non è diminuita la curiosità per le cose nuove, ma è diventata più mirata l'attenzione. Forse da giovani si è più preda dell'entusiasmo, mentre con il tempo la curiosità diventa più voglia di approfondire.

 

Sull'Annapurna nel 2017 © archivio Meroi-Benet


L'alpinismo di oggi vive del bisogno di essere sempre connessi. Immagino che ne siate immuni, ma qual è la tua impressione?

Se uno ha ambizioni di emergere, di avere qualcosa come sponsor e fama, è una necessità essere connessi, ma si arriva all'assurdo per cui in spedizione, invece che gustarti la libertà, sei sempre impegnato a fare e brigare. Mi sa che qualcuno ha anche paura di rimanere solo con sé stesso.


Comunicare l'alpinismo per combattere la paura del vuoto?

Tolti gli impegni che uno può avere con i propri sponsor...forse sì. L'alpinismo si può vivere come si preferisce: come una professione o in forma privata. Però rimanere sempre connessi impedisce di prendere contatto con sé stessi, è una grande perdita. E si perde anche un valore importante ai fini alpinistici, perché rimanere con sé stessi permette di capire anche come affrontare una montagna e nel rinunciare a farlo ci si mette in pericolo.