"Siamo stati quattordici giorni in una bottiglia di latte". Roberto Ragazzi commenta così "Ferdasky – Glacier expedition", la spedizione non supportata che ha guidato in Islanda sul ghiacciaio Vatnajökull, il più grande per volume e il secondo più esteso d'Europa, nonché quarta calotta mondiale. Da un'immagine acquisita dall'ESA – l'Agenzia Spaziale Europea – il 6 luglio 2019, il Vatnajökull copre un'area di 8400 chilometri quadrati e ha uno spessore medio di 900 metri.
Un ghiacciaio che rimpicciolisce di anno in anno. Secondo lo studio “Climate change response of Vatnajökull, Hofsjökull and Langjökull ice caps, Iceland”, presentato nel 2006 a Reykjavik durante l'European Conference on Impacts of Climate Change on Renewable Energy Sources, il Vatnajökull perderà quasi tutto il suo volume nei prossimi 200 anni con un deflusso idrico – una perdita d'acqua, e quindi di massa glaciale – pari a 2,3 m/anno nella parte meridionale.
Tre persone in totale autosufficienza, quattordici giorni di traversata da est a ovest, circa 170 chilometri sul ghiacciaio: il team Ferdasky, capitanato da Roberto Ragazzi e composto da Stefano Farronato e Roberto Fantoli, ha mosso i primi passi verso il ghiacciaio l'8 marzo 2024, e ne è uscito il 21 marzo alle 19.00 circa. Nella squadra c'è anche Alessandra Marchesi, addetta alla comunicazione di Roberto, che ha seguito la spedizione da casa.
Nel mezzo: neve, vento, whiteout per dodici giorni. Ma anche tanta forza di volontà, momenti di tensione e...il caffè che gorgoglia nella moka.
Roberto Ragazzi, che di spedizioni ne ha fatte tante, ha abbinato a questa traversata un progetto umanitario: "From ice for life", una raccolta fondi per costruire un acquedotto a Ghishikanwa, nel comune di Bugenyuzi, provincia di Karuzi, in Burundi. Qui c'è un villaggio con una popolazione di circa 1600 persone, una chiesa e una scuola elementare che ospita 750 studenti; la fonte più vicina di acqua potabile è Gahunga, a 30 minuti a piedi. Il progetto è sostenuto da Vispe – Volontari italiani Solidarietà Paesi Emergenti – e da Cimberio spa, azienda italiana che opera nella produzione di valvole e componentistica in ottone per i settori termoidraulico, climatizzazione, reti di distribuzione gas e acquedottistica.
Un progetto simbolico, che contrappone sovrabbondanza e scarsità: da una parte, nel nord Europa, c'è un ghiacciaio immenso che, fondendosi, rilascia grandissime quantità d'acqua; dall'altra, in Africa, c'è un villaggio in cui non c'è acqua potabile, e serve un acquedotto per rifornire la popolazione.
Ciao Roberto! A distanza di un anno dalla tua spedizione sul Vatnajökull, con che immagine la descriveresti?
Durante la spedizione ero su un'altalena: in alcuni momenti ero su, gasatissimo per l'esperienza e il luogo in cui mi trovavo; in altri momenti ero giù, in un baratro. Non vedevo l'ora di finire e di vedere qualcos'altro oltre alla punta dei miei sci. È stato molto provante dal punto di vista mentale.
Come mai?
Ci sono state condizioni meteo proibitive. Abbiamo percorso circa 170 km in 14 giorni nel whiteout totale, con nevicate quotidiane, vento fortissimo e visibilità zero. Siamo stati per quattordici giorni in una bottiglia di latte.
Come ti orientavi nel whiteout?
Avevo bussola, carta topografica, tracce GPS e dispositivi satellitari. Prima di partire, ho dovuto denunciare al Rescue islandese tutta la traccia; in caso di problemi, avrebbe potuto recuperarci. Un giorno il gps è anche andato in crash: l'eruzione di un vulcano a circa 40 km di distanza aveva creato un forte campo elettromagnetico che ha disabilitato i dispositivi. Io avevo gli strumenti analogici e tutti i punti azimut per procedere.
Comunicavi con qualcuno fuori dal gruppo?
Con il telefono satellitare sentivo tutte le sere alle 22.00 la mia addetta stampa Alessandra Marchesi, il nostro tramite con il Rescue. Comunicazioni brevi: “tutto ok”, “nessun problema”. Lei aveva la nostra traccia con 10 minuti di ritardo. Il Rescue islandese ci monitorava; eravamo l'unica spedizione in quel momento.
Quindi eravate gli unici sul ghiacciaio?
Sì. Doveva arrivare un gruppo di scienziati a Grimsvötn – un vulcano nella parte sud-est dell'Islanda, quasi tutto ricoperto dal ghiacciaio Vatnajökull, ndr – per fare delle rilevazioni perché il ghiacciaio è in sofferenza; è attentamente studiato e monitorato dalla scienza perché si sta degradando. Il suo scioglimento innalzerebbe il livello dei mari devastando il sistema ecologico. Alla fine gli scienziati non sono venuti perché le condizioni meteo erano proibitive.
Vi siete dovuti fermare?
Sì, siamo rimasti due giorni e mezzo in tenda perché c'erano raffiche di vento a 130/140 km/h. Era difficile anche uscire per fare la pipì.
E cosa significa camminare con il vento a 130/140 km/h?
Immagina di stare in piedi con le braccia aperte: se provi a lasciarti cadere, con quelle raffiche resti in piedi. E se vieni filmato da fuori, e non si vede il vento, chi ti guarda pensa che sei un mago, sospeso a 45° senza sbattere a terra. Sono vere e proprie sberle che ti arrivano addosso. Per non parlare dell'effetto “windchill”: il tuo corpo percepisce una temperatura di -30 gradi°, nonostante siano -10.
Nei piani originali quanto doveva durare la spedizione?
Premetto che non eravamo andati lì per fare un tempo record, ma solo per vivere questa esperienza. Avevamo pensato nove giorni, più un paio per eventuali imprevisti.
Com'era l'umore durante la spedizione?
Ci sono stati momenti di scoramento perché il tempo non cambiava e le previsioni non miglioravano. Eravamo disorientati da questo latte che ci circondava. Poi era difficile anche riposare: dormivamo in tre in un'unica tenda. Ci riparava dal vento ma ogni due ore, a turno, bisognava uscire, controllare che le palerie non si rompessero, spalare la neve. Questo ha reso l'esperienza ancora più stressante. Ecco perché dico che per affrontare queste situazioni così difficili bisogna stare bene con se stessi, avere una serenità interiore, cercarsi le proprie scappatoie. Io per esempio, avendo molto tempo per pensare, faccio un viaggio dentro di me durante le spedizioni, esploro luoghi che ancora non conosco, mi parlo.
Essere in gruppo ha aiutato a migliorare l'umore?
In condizioni così estreme sei solo. Non riuscivamo neanche a sentirci per quanto vento c'era, dovevamo parlarci nell'orecchio! Siamo partiti in tre per questioni di sicurezza. Ma ognuno deve badare a se stesso, avere una grande onestà intellettuale, collaborare. Altrimenti diventa tutto più complicato. C'è stata della tensione perché un membro del team voleva continuare a camminare ma il tempo non lo permetteva: io ero team leader e avevo la responsabilità di portare a termine la missione in sicurezza e per due volte mi sono imposto per piantare la tenda e ripararci dal vento.
Eravate pronti a queste condizioni climatiche?
Prima di partire avevo controllato le previsioni dell'aeronautica militare, attendibili a tre giorni. Sapevamo che ci sarebbe stata una perturbazione, ma non pensavamo, nè potevamo sapere che sarebbe durata così tanto. Il Rescue islandese ci ha confermato che queste condizioni sono anomale. La spedizione era insidiosa per i crepacci, che sono soprattutto all'accesso del plateau sommitale del ghiacciaio. Non sono stati un problema perché ogni giorno cadevano 40/50 cm di neve e hanno coperto tutto. Di contro, è stato difficile trasportare la pulka.
Cos'è la pulka?
È la “slitta” che usano i popoli artici. Per loro è sacra ed è tradizione darle un nome. La mia si chiama Nattolina, come il mio cane pastore tedesco Natt, al quale ero tanto legato. Avevamo tutto lì dentro e ognuno trasportava 40/50 kg di pulka. Non è stato facile muoverci con gli sci ai piedi e tutto questo peso sulla neve fresca.
Com'è stato quando hai messo piede sul ghiacciaio la prima volta?
Quando sono arrivato all'attacco del ghiacciaio ero nel mezzo di niente e c'era solo questo colosso gigante: è stato inquietante. Poi siamo partiti e l'abbiamo affrontato.
Parlando di aspetti pratici: cosa mangiavi?
Il mangiare, durante le spedizioni, è uno schifo. Ci siamo portati delle bustine di cibo liofilizzato che, con l'aggiunta di acqua calda, diventa un pasto pronto da 850 calorie. In questo modo puoi mangiare di tutto: risotto con lo zafferano, con la salsiccia, pasta alla bolognese, per farti degli esempi. Avevamo un fornelletto e 3 litri di carburante a testa. Abbiamo usato la benzina Avio, quella degli aerei, resistente a -50°C. Io poi sono molto attento all'alimentazione, anche durante le spedizioni: ho portato frutta essiccata a casa, dei crackers; evito di mangiare barrette o gel. Organizzo il cibo in base ai giorni di cammino e al dispendio calorico, lo divido in buste così so sempre cosa mangiare e reintegro bene le energie. E poi non potevano mancare il te e il caffè!
E come preparavi il caffè?
Ho portato la mia moka! Tu immagina che durante la spedizione sei privato di tutto ciò che è buono e gustoso; allora prepari il caffè, senti l'aroma e il rumore magico di quando esce, lo versi e poi lo bevi. Erano momenti goduriosi, una vera libidine. Miglioravano il mio umore!
Avevate la possibilità di lavarvi?
Quest'anno, per la prima volta, sì! Una ditta straniera mi ha dato delle bustine sottovuoto con due guanti di gommapiuma imbevuti di prodotti disinfettanti: uno per la parte superiore e uno per quella inferiore del corpo. Ce lo passavamo sulla pelle e si asciugava subito.
Quando hai fatto la prima vera doccia?
Appena siamo usciti dal ghiacciaio. Il programma iniziale era passare la notte in un rifugio, ma quella sera c'era un allarme meteo e il Rescue islandese ci ha recuperato e ci ha portato in un albergo. E lì, prima ancora di mangiare, ho fatto una doccia: ho sentito l'acqua scorrere sui capelli, sulla schiena. Una figata!
Com'è stata la prima notte fuori dal ghiacciaio?
Quando mi sono appoggiato sul letto, non so neanche da che parte mi sono girato e mi sono addormentato subito. I due/tre giorni successivi sono stato in catalessi, pensavo solo a mangiare, fare docce e dormire. Non riuscivo neanche a leggere, dopo tre pagine crollavo. Ho scaricato tutta l'adrenalina che avevo addosso. Avrò fatto 3/4 docce al giorno. E poi ho mangiato patatine fritte, hamburger, a colazione tre/quattro brioche, due cappuccini. Senza ritegno proprio.
Hai avuto degli sponsor?
Dal punto di vista economico, il Cai; per abbigliamento e strumentazione tecnica ce ne sono stati diversi, tra cui Ferrino, Garmin, la Mico, Salice, Cormik. Tutte aziende con cui c'è un rapporto di fiducia e che hanno creduto nel progetto “Ferdasky”.
Cosa significa il nome “Ferdasky”?
È una parola islandese composta da “fero”, che significa viaggio, e “sky”, nuvole. Può essere tradotto come “nuvole in viaggio” o “nuvole viaggianti”. Fa riferimento al ciclo dell'acqua: dall'oceano arriva il vapore acqueo che forma la nuvola; dalla nuvola l'acqua; dall'acqua la neve che cade sul ghiacciaio e lo alimenta. L'autrice del nome è Alessandra Marchesi.
Fai spedizioni per lavoro?
Le spedizioni sono una mia passione che ho coltivato fin da piccolo. Sono stato sempre un divoratore di libri, sono cresciuto con Jack London, Henry David Thoreau, che mi hanno raccontato il freddo dell'Alaska, i cani da slitta.
Quindi tu il latte lo preferisci freddo o caldo?
Assolutamente freddo! Ho avventure ormai quasi ventennali in giro per il mondo, e ho sempre spinto i miei interessi oltre il Circolo Polare Artico: sono stato in Canada, Alaska, Groenlandia, nelle Svalbard, in Svezia, Finlandia, Norvegia. Sono rimasto ammaliato da questo ambiente così severo, bello e arricchente.
E qual è il tuo lavoro?
Ho un centro privato di riabilitazione, sono laureato in Scienze motorie con indirizzo Fisiologia dello Sport. E grazie a questo lavoro posso permettermi tutti i viaggi e le avventure che sognavo da piccolo.
Da quanto sognavi questo viaggio sul Vatnajökull?
Da un po'. Sono stato in Islanda nel 2017: ho sorvolato il ghiacciaio con un aereo in una giornata con un sole bellissimo e ho pensato che mi sarebbe piaciuto metterci su le gambe, la testa e attraversarlo. Ho deciso di partire in modo casuale. Ho sentito Stefano, Roberto e Alessandra, ho fatto il biglietto aereo e ho iniziato la preparazione. Ora che tutto è finito, posso dirti che l'esperienza è stata: incredibile, stimolante, tosta.
Come ti sei preparato?
Allenandomi nel disagio quotidiano.
Che significa?
Che in spedizione si soffre. E quando ci si prepara, bisogna saper soffrire. Dopo un'intera giornata di lavoro tornavo a casa, mangiavo e anziché andare a dormire mi mettevo le scarpe da ginnastica, la pila frontale e andavo a correre per 10 km, anche con la neve o la pioggia. Oppure il sabato sera, quando gli amici mi invitavano a cena, io rifiutavo e andavo ad allenarmi. Per me il successo di una spedizione come questa dipende da sei punti fondamentali: il duro lavoro, la pazienza, il sacrificio, la costanza, la disciplina, la fiducia in se stessi. E questi sono capisaldi che ti porti anche nella vita.
Durante la preparazione ti sei fatto sostenere anche da uno psicoterapeuta?
No, non ne ho mai sentito il bisogno. Ora però vorrei andarci per capire perché durante questa spedizione mi è successo, per la prima volta, di essere talmente tanto affaticato e stremato da non riuscire a dare un senso logico ai miei pensieri, o a visualizzare i volti delle persone a me care mentre camminavo.
In una foto hai una bandiera dell'Italia firmata. Che cosa rappresenta?
Ad ogni spedizione abbino sempre un progetto umanitario. In questo caso si chiama "From ice for life": si tratta di una raccolta fondi per la costruzione di un acquedotto nel Burundi, in un villaggio di 1600 persone che non ha ancora l'acqua potabile. Gli abitanti devono fare 3 km a piedi con taniche da 20 litri sulle spalle per portare l'acqua al villaggio. Cimberio spa costruirà l'acquedotto. Prima di partire, è venuto in Italia il prete di quel villaggio a benedire la bandiera, e ho preso l'impegno di portarla con me in Islanda e di riportarla in Burundi quando l'acquedotto sarà finito.