Morire di bellezza: il rischio nell’alpinismo e il senso della vita

Un racconto intimo e drammatico di Toni Klingendrath esplora il confine tra rischio, morte e amore per la vita nell’alpinismo estremo.
Il Pumori © Wikimedia Commons

Era il settembre del 1982 quando, sulla storica Rivista della Montagna, uscì un articolo intitolato “Morire di bellezza”. A firmarlo era Toni Klingendrath, alpinista e geologo triestino. Il pezzo era basato su una drammatica esperienza vissuta sul Pumori nel 1980, il testo esplorava il rapporto tra alpinismo, rischio e la ricerca di significato di fronte alla morte.

La vicenda raccontata risale all’autunno del 1980, quando Klingendrath e il compagno Roberto Giberna stavano scalando il versante sud-est del Pumori. Si trovavano a circa 6600 metri, dopo due giorni di arrampicata su un terreno ripido. Ormai erano giunti quasi a fine giornata, quando una valanga li travolse. “Neve in bocca, negli occhi. Non devo respirare. Mano sulla bocca!” ricorda Klingendrath, rievocando quei momenti di puro terrore.

Bloccato sotto la massa di neve, disorientato e immobilizzato, Klingendrath affronta la paura della morte: “La prima gioia: non sono morto soffocato. Mi ha sempre fatto paura la morte per soffocamento”. Eppure, con lucidità, si rassegna a un altro destino: “Morirò assiderato. Mi fa quasi piacere. È una morte che ho sempre considerato molto bella”.

Mentre attende la fine, la sua mente vaga tra ricordi, paure e riflessioni esistenziali. “Pensavo a tutto quello che avrei lasciato: amici, parenti, amori. Ma sono solo camuffamenti della nostra totale solitudine e povertà” scrive. Per Klingendrath, la morte diventa un’esperienza naturale, inevitabile come la nascita: “Qualunque cosa accada, non sarà poi quel gran male”.

Eppure, nonostante la rassegnazione, un istinto profondo lo spinge a reagire: “Non credo si debba assistere passivamente alla propria fine. Anche con poca convinzione, iniziai a scavare”. Lentamente, riesce così a liberarsi dalla neve, un gesto che riaccende in lui la speranza.“Tremo come una foglia. Respiro forte, profondamente. Vuoto. Solo vuoto” racconta degli attimi successivi, quando finalmente si ritrova fuori dalla sua tomba di neve e ghiaccio a guardare le montagne circostanti. Dopo essersi liberato, Klingendrath inizia la discesa verso valle, convinto che il compagno sia morto. Solo al campo base scopre che anche Giberna è sopravvissuto: travolto dalla valanga, era rimasto sospeso dalla corda e, sebbene ferito, era riuscito a mettersi in salvo e a provare a cercarlo prima di scendere a valle. Non ricevendo risposta ha poi dedotto anche lui che il compagno fosse morto.

 

Il significato dell'esistenza

Questa esperienza estrema, narrata con intensità nella Rivista della Montagna, va oltre il resoconto di un’avventura alpinistica e appare attuale come mai, soprattuto dopo i tragici fatti di cronaca con cui abbiamo chiuso il 2024. È una riflessione sul rischio e sul significato dell’esistenza. Perché gli alpinisti affrontano situazioni così pericolose? Pietro Crivellaro, nell’introduzione all’articolo, scrive: “Gli alpinisti scelgono il pericolo come rituale rassicurante, una ribellione simbolica per riscattarsi dalla routine quotidiana e conoscere sé stessi”. Klingendrath, nelle sue riflessioni, non offre risposte definitive. “Ho raccontato questa esperienza per capire meglio ciò che ho vissuto e per discuterne con altri. Forse solo condividendo sensazioni ed esperienze possiamo dare più senso alla vita” conclude.

Metaforicamente il racconto si chiude con una domanda che resta aperta: è giusto rassegnarsi alla morte o bisogna sempre lottare? Per Klingendrath, la lotta non è solo istinto di sopravvivenza, ma un modo per riaffermare l’amore per la vita stessa.