La terra presenta al suo interno zone a densità variabile, 2024 Azione su Lago ghiacciato, Installazione video1 © Archivio Simone CamettiInsegnante di tecniche performative all’Accademia di Roma, scalatore e guida ambientale, Simone Cametti alterna periodi di rielaborazione nel suo studio capitolino a vere e proprie immersioni montane dalle Alpi agli Appennini. Grande sostenitore delle residenze artistiche come strumento artistico necessario per comprendere appieno un luogo, Cametti con le sue opere punta a entrare in contatto profondo con la montagna, in un rapporto dove, attraverso lo sforzo fisico, il corpo gioca un ruolo centrale.
Negli anni, l’artista ha sperimentato molti linguaggi espressivi diversi tra loro, spaziando dalla fotografia, alla scultura installativa fino a giungere all’arte performativa. Filo conduttore dei suoi interventi oltre che un focus costante sui materiali, è l’utilizzo della luce, che diventa stimolo per interrogarsi sulla realtà.
Nei tuoi lavori metti al centro il materiale, spesso la roccia, come mai?
È una cosa che mi porto dietro dai tempi dell’accademia e arriva fino a oggi. All’interno dell'ambito artistico si può dire che mi rapporto attraverso due approcci, da una parte la scultura, con il marmo che ricopre un ruolo primario, e dall’altra il lavoro performativo in ambiente. Inizialmente, mi bastava la pietra come materiale a sé stante, con le sue specificità. Successivamente, invece, ho iniziato a eseguire anche delle azioni artistiche sul materiale in senso più ampio. Dalla pietra, miro a far emergere una nuova codifica, una nuova dimensione che racconta della storia di quel materiale e delle nostre tracce su di esso. Sono infatti molto attratto dalla geologia e dalla struttura stessa delle rocce. Così, spesso, sono andato a ricoprire le rocce con delle vernici poliuretaniche, lavorando sugli effetti del colore dati dall’interazione con la luce. Poi, lentamente, ho iniziato a togliere strati di colore svelando parte della pietra che nascondeva. Con questi lavori, la cosa che mi interessa maggiormente è rappresentare il tempo proprio della roccia, un tempo sospeso, vincolato all’interno della stessa sedimentazione minerale.
E l’utilizzo di colori sgargianti, nasconde invece qualche significato particolare?
Oltre alla produzione più materica, la mia ricerca si concentra molto anche sull’aspetto cromatico e sulle interazioni che possono esserci con la luce, che, ovviamente, è l’origine dei colori. Nel progetto intitolato Nix, ad esempio, sono andato a lavorare nella cava della Val Lasa e lì mi sono ispirato ai colori fluorescenti che gli operai utilizzano per marcare i punti di rottura. Si tratta di colori artificiali, apposti dall’uomo che scava e disperde il materiale, dove è cruciale trovare il giusto equilibrio tra le masse rocciose che si vogliono asportare e quelle che devono rimanere. Nelle mie opere, lo stesso colore appariscente rappresenta un ulteriore equilibrio: quello tra uomo e natura. La mia non è una denuncia in nome della tutela della natura, quanto piuttosto un confronto, che penso sia più attuale, soprattutto nel mondo dell’arte.
Quali differenze nel lavorare trovi tra i diversi tipi di roccia?
Quello che mi interessa è ricodificare a livello fisico un mio punto di osservazione, per questo sono un amante dei materiali, sia naturali che industriali, non soltanto della pietra. Il punto di partenza è sempre il loro studio e solo in un secondo momento avviene la loro lavorazione, in particolare quella della pietra avviene spesso industrialmente. Di per sé, come accade in arrampicata, il marmo e il granito sono due mondi completamente diversi. Il granito è meno gestibile però l’ho comunque impiegato per alcuni lavori. Un esempio è il progetto Tina con il quale volevo presentare un altro artista. Nello specifico ho scelto Tina Allori, cantante degli anni Cinquanta che, tra le altre cose, era anche mia nonna, e ne ho ripreso in esame la sua lapide, fatta di un tipo di granito particolare, la larvikite. Per farlo, ho fatto risuonare la sua canzone Potessi rivivere la vita nell’auditorium della cava di Larvik in Norvegia.
Simone Cametti al lavoro © Archivio Simone CamettiLavoro Bivacchi nel 2019, l’Appennino è un territorio che va raccontato in modo differente?
Sono nato ad Amatrice, un paese che non esiste più. È proprio lì, sui Monti della Laga, nell’amatriciano, che ho condotto il mio progetto intitolato Bivacchi. Quei monti sono posti fantastici e tutt’ora sconosciuti ai più. L'unica cosa che si può trovare sono solo dei bivacchi da pastore. Ho quindi creato, attraverso una camminata di circa 40 km, una mappatura del territorio che puntava a unire due di questi punti di riparo. Nei due bivacchi ho quindi posizionato alcune installazioni luminose grazie a dei pannelli fotovoltaici. La presenza della luce testimoniava dunque la possibilità di abitare quei posti. Dopodiché ho invitato in residenza alcuni artisti per avere un altro punto di osservazione di quei luoghi. Secondo me il punto centrale è vivere la montagna, credo infatti che molti artisti parlano di montagna senza sapere effettivamente di cosa si tratti.
Arte e montagna solitamente vengono associate per via dei paesaggi, cosa c’è oltre a questo?
Secondo me l’artista lavora troppo a livello estetico. Oggi bisognerebbe più che altro affacciarsi sulla realtà, invece che rimanere su una visione prettamente estetica. Mi interessa molto l’attività fatta sul territorio piuttosto che la sua osservazione da lontano. Invece di coltivare un’ammirazione prettamente romantica delle montagne, si dovrebbe essere più presenti in montagna, al fine di comprenderla meglio, ad esempio attraverso le residenze.
Come ti approcci a un soggetto artistico come quello della montagna?
Trovo difficile descrivere la montagna di per sé, preferisco raccontarne il materiale che ci trovo dentro. Generalmente, il mio sguardo non è lontano, ma concentrato sull’azione. Nel tempo ho notato che nei miei lavori la gente ritrova sempre una buona parte di sforzo fisico. Tutte le azioni che propongo portano con sé uno sforzo teso all’addentrarsi nell’ambiente montano e dove il corpo la fa da padrone. Ad esempio, tra il 2011 e il 2012 mi ero messo in mente che volevo fotografare il paesaggio ideale. Allora ho intrapreso camminate lunghissime tra il Gran Sasso, la Maiella e la Laga e non mi sono fermato finché non ho trovato il mio paesaggio ideale. Con me ho portato in tutto centinaia di litri d’acqua che ho poi mescolato con del colore naturale (completamente biodegradabile) verde e con il quale ho letteralmente verniciato l'intero paesaggio per un’area di poco più di un ettaro. Ho scelto il verde perché a quella quota non esiste e il panorama è dominato da un giallino bruciato. Infine scattavo una fotografia di grandi dimensioni. Come in altre opere, la mia intenzione è quella di ricodificare il paesaggio.
In definitiva, trovi che ci sia una connessione tra arte e montagna?
Sì, per gli artisti che sanno lavorare sulla montagna sì. Ma non ce ne sono tanti. Altri la montagna la vivono, tanto che addirittura rischiano di perdercisi, con i fienili che sono diventati i loro atelier. Forse, a ben vedere, sono anche contento che questa connessione non sia così comune.
2023, MARMO LASA, MARMO NERO SAHARA, VERNICE POLIURETANICA, DIMENSIONE AMBIENTE © Archivio Simone Cametti