Montagne d'arte. Gianluca Di Pasquale

Dall’Appennino umbro all’Engadina, il pittore paesaggista trova ispirazione nella natura, per la sua ricerca artistica fatta di un'arte lenta e legata alla tradizione.
L'ultima discesa © Courtesy Gianluca Di Pasquale

C’è una sensazione, tipica, che chi abitualmente frequenta l’ambiente montano conosce bene. È l’impressione di essere immersi in uno spazio vuoto, sebbene, al tempo stesso, si sia circondati da un’infinità di elementi naturali (e/o umani) di vario tipo. Che sia un ampio pianoro innevato o un fitto bosco popolato da alberi, rocce e animali, quella percezione di calma è lì, anch’essa in attesa e pronta ad avvolgere il passante più attento. La stessa sensazione di tempo sospeso è ciò che emerge dai quadri di Gianluca Di Pasquale, il quale, come fosse uno scultore, lavora per sottrazione proiettando per contrasto una moltitudine di toni e sfumature che animano la tela, in gran parte lasciata bianca.

Gianluca Di Pasquale è un paesaggista affermato che lavora con gallerie riconosciute sia in Italia che all’estero. Tra le sue opere, presenti in molteplici collezioni di istituzioni pubbliche e private, anche il ciclo dedicato ai paesaggi invernali dell’Engadina. L’imporsi del bianco, divenuto nel tempo la cifra stilistica dell’arte di Di Pasquale, prende il via, quasi per caso, alle pendici di uno dei massicci montuosi più iconici d’Europa: la Sierra Nevada di Granada, in Spagna. La montagna, nell’arte del pittore di origini romane, è una presenza silenziosa e che da lontano ne influenza la poetica. Per l’artista, tuttavia, si tratta principalmente di una questione estetica.

The branches © Courtesy Gianluca Di Pasquale

Tanti dei soggetti che dipingi sono paesaggi naturali. Il paesaggio è una composizione già predisposta o è l’artista che lo interpreta?

Molti dei miei paesaggi sono in realtà il risultato di un'opera di sintesi. Anche se sembrano reali, sono paesaggi interiori fatti di quello che mi è rimasto dentro dopo averli vissuti. Mi piace prendere alcune cose che mi colpiscono, mescolarle e giustapporle fino a che non trovano un loro equilibrio. Spesso nei miei quadri, dove ogni elemento viene pesato, c’è la ricerca di un equilibrio che si ripete. Penso quindi che, nel mio caso, si tratti di un’azione re-interpretativa.

L’arte paesaggistica è rimasta sempre la stessa nel tempo? Come si può innovare?

In fondo, non trovo ci sia stata una grande evoluzione. Allo stesso tempo, non penso che si debba per forza innovare. A volte l’arte contemporanea sembra chiedere all’artista di dover essere originale a tutti i costi, ma è un’illusione. Così come facevano i grandi pittori del passato, vado spesso a dipingere en plein air per poi lavorare in studio sugli appunti presi. La stessa pittura pompeiana è di fatto la reinterpretazione dell’ispirazione che viene dalla natura.

Tra le tue opere anche un filone dedicato all’Engadina. Quali espressività ricerchi, come ti approcci alla montagna?

Personalmente non pratico l’alpinismo né mi dedico a grandi escursioni, tuttavia passeggio a lungo per prendere appunti e trovare ispirazioni. Questa abitudine mi viene dal periodo trascorso in Engadina. Era la prima volta che vedevo così tanta neve e quindi spesso mi immergevo con curiosità nei dintorni, mentre aspettavo mia figlia che al tempo stava imparando a sciare al campo scuola.
Ricordo che ogni camminata portava con sé una micro-scoperta sull’ambiente circostante e quindi la inserivo nel quadro successivo. A forza di aggiungere piccole cose o cambiare punti di vista ne è nato un intero filone dedicato all’Engadina e a quel colore onnipresente, che non è il blu del cielo, ma il bianco della neve.

Il bianco è l’elemento fondante della tua poetica, quali particolarità ci trovi?

La neve è piena di colori, non è mai solo bianca, ad esempio c’è l’azzurro e anche il grigio. Io la dipingo però come farebbe un bambino, semplificandola e restituendo in tal modo l’idea di purezza. È questa la cosa che cattura gli spettatori, è la rappresentazione di un silenzio bianco, che viene interrotto da alcune piccole figure. È un vuoto che crea attesa e, di riflesso, illumina tutti gli altri elementi, come se fosse un faro. La mia convinzione è che nel nulla sia già tutto presente, ed è grazie al vuoto circostante che la realtà riesce a emergere.

Un altro elemento ricorrente è il rapporto tra il molto grande e il molto piccolo. Cosa sta a significare?

Semplicemente, è la     rappresentazione di noi esseri umani, che, anche se ci facciamo caso poche volte, messi di fronte alla natura risultiamo veramente molto piccoli. Ce ne accorgiamo solo in rare occasioni, ad esempio quando siamo in mare aperto, in montagna, o sotto un cielo stellato. Si tratta di uno squilibrio, e io lo uso per riequilibrare la composizione delle mie opere.

Di recente ti sei trasferito negli Appennini umbri, quali ispirazioni ci trovi?

La collina umbra mi permette di continuare a camminare molto. È il contatto con la natura che è bello. Anche se i miei soggetti nascono da cose che vedo per la prima volta, trovo ispirazione in questo paesaggio che mi è molto familiare, perché mio nonno era di qui. Oltre al paesaggio conta tutto quello che c’è intorno, la lentezza della società e come scorre il tempo. Sin da piccolo sono stato affascinato da questi spazi, i dintorni del Parco Sirente Velino ad esempio, che catturano lo sguardo e dove proietto i pensieri.

La natura come soggetto artistico: tutto è già stato detto?

C’è ancora molto spazio, non finirà mai. Tra arte e natura si può sempre trovare un punto di contatto nuovo, dipende dall’artista. È come succede nella musica, le note sono sette ma potenzialmente puoi fare musica infinita. Lo vedo nel mio lavoro, dove ogni giorno mi sveglio e vorrei realizzare il quadro perfetto, ma alla fine non sono mai soddisfatto, e quindi ricomincio. Per me è come una lotta continua, una rincorsa al quadro ideale che non si riesce mai a realizzare.

Avventura © Courtesy Gianluca Di Pasquale