Weary female giant © Archivio Daria AkimenkoSuccede, spesso, che a raccontare la montagna siano persone che la vivono sulla propria pelle, nel modo più diretto, attraverso l’esperienza quotidiana di un lavoro antico o quella più breve, ma intensa, delle spedizioni alpinistiche. Succede, altrettanto spesso, che nel novero di quelli ai quali viene riconosciuta l’autorità per poter narrare il mondo montano, figurino perlopiù profili tecnici ed esperti di settore. Tuttavia, a ben vedere, non è raro incontrare voci esterne, che, sebbene lontane dallo stereotipo culturale delle terre alte, si mostrano capaci di scoprirne lati inediti.
Nel panorama altoatesino, si distingue quella di Daria Akimenko, giovane artista di origini russe che oggi vive e lavora a Bolzano. Attraverso varie tecniche artistiche - come quella del collage - tipicamente più vicine ai paesaggi urbani, Akimenko posa l’obiettivo della propria ricerca sulla relazione umana con il paesaggio naturale, prestando un particolare occhio di riguardo a quello montano. Tra le sue opere principali, spicca il ciclo delle “Gigantesse stanche”: un intero filone costruito a partire da fotografie di montagna “di recupero”, che l’artista dedica al legame tra femminile e montagna, come luogo in cui fondersi e trovare sostegno.
Otherworldly women © Archivio Daria AkimenkoIl paesaggio montano è un protagonista dei tuoi lavori, che rapporto hai con esso?
Le montagne dove sono nata, gli Urali, sono tra le più vecchie del pianeta. Allo stesso tempo, sono una zona industrializzata e molto inquinata per via dei molti minerali presenti nel sottosuolo. Da bambina per me rappresentavano la normalità, così come era normale che quello della montagna fosse un mondo per pochi. Solo chi veniva formato da alpinista vi accedeva, mentre oggi, invece, viene sfruttato molto anche dal settore turistico. Successivamente, ho lasciato Ekaterinburg per dirigermi a Rovaniemi in Lapponia, dove ho conseguito un dottorato di ricerca su come i vari linguaggi artistici possono rappresentare il legame che c’è tra identità e luoghi. Infine, quasi per caso, sono approdata in Alto Adige dove risiedo. Anche se sono cresciuta in una grande città, le montagne hanno sempre costituito l’orizzonte dei miei paesaggi.
Tra le tecniche artistiche che prediligi c'è quella del collage. Cosa ti dà rispetto ad altre forme d'arte?
La scelta di lavorare con questa tecnica risale al 2018, quando mi sono trovata ad affrontare una forte crisi personale, che mi ha portato a produrre molto. All’inizio, si trattava di semplice sperimentazione, con la creazione di collage fini a sé stessi. Con il tempo, poi, ho trovato la mia estetica, che anche se in modo non voluto, racchiude ancora influenze della vecchia grafica sovietica e del mio periodo russo. Più in generale, sento spesso una certa inadeguatezza residua, dovuta al fatto che sono straniera e che in fin dei conti non appartengo al luogo in cui vivo. Il bello di creare dei collage, però, è che qualsiasi cosa può trovare un suo luogo d’appartenenza, anche cose che non c'entrano nulla l’una con l’altra. In definitiva, per me è come se il collage rappresentasse una sorta di superpotere, capace di far convivere elementi diversi tra loro.
E alle tue gigantesse, che quasi prendono il posto delle montagne, come ci sei arrivata?
Anche loro sono arrivate nel 2018. Al tempo raccoglievo varie fotografie e immagini da riviste, calendari e poster. Vivendo in Alto Adige, va da sé, la maggior parte erano legate alla montagna. Così, osservandole giorno dopo giorno, richiamavano in modo sempre più forte le forme femminili. Così sono nate le Weary female giants, anche dette Le gigantesse stanche. Una proposta, in fin dei conti, anche per ridare spazio alle donne, che spesso sono relegate a ruoli marginali. Quei paesaggi montani, per me rappresentano un mondo dove la donna può prendersi finalmente tutto lo spazio che vuole. Inoltre, da donna, si è spesso in conflitto con il proprio corpo. Diventando gigantessa, invece, i problemi magicamente diventano molto piccoli. È forse un modo molto umano di relativizzarli. Quello delle gigantesse, poi, è anche un modo per potermi relazionare a tu per tu con la montagna, senza averne paura, senza dover per forza essere alpinista.
Lavori con le montagne, ma il formato delle tue opere è spesso medio-piccolo...
E addirittura piccolissimo, come nel caso delle diapositive. Come nel caso della mostra “Otherworldly women”, per la quale ho lavorato su alcune delle fotografie scattate dal nonno della mia curatrice. Un appassionato montanaro, Mario Lasta (1922-1998), che ringrazio per avermi mostrato, attraverso i suoi scatti, uno sguardo diverso sulla montagna. In quei lavori grandi pochi centimetri, dove ho faticato non poco per inserire delle donne giganti, ci sono le montagne, ci sono io con le mie donne, e c’è anche un fotografo. Mentre disegnavo, ne ho proprio sentito la presenza, perché una cosa è vedere un paesaggio, un’altra è mettersi in ascolto e farselo mostrare. Mi sono spesso trovata a chiedermi se mi fosse permesso tracciare un segno e continuare così la forma del pendio per inserire le mie gigantesse. Se fosse in qualche modo giusto osare e intervenire: è una questione, anche questa di rispetto verso la montagna. Lo porto dentro di me come un esercizio importante, che mi ha cambiata.
Il femminile e il paesaggio montano. Quali affinità?
Se penso alla montagna mi suscita subito una sensazione di affidabilità. È una cosa che era qui prima di noi e lo sarà per molto tempo dopo. Anche se come umani spesso la sfruttiamo fino a sfigurarla, la montagna, come la natura in genere, sa essere molto resiliente e dunque stabile. A livello di archetipo, la collego alla sfera del femminile, nella sua capacità di accogliere e racchiudere. Personalmente, vedo il simbolo della montagna collegato all’immaginario della natura creatrice, in questo senso la montagna per me è donna. E volendo osservare bene, si può anche riscontrare un elemento di body positivity. Paragonando un paesaggio montano a un corpo femminile, ci si rende conto che in natura non esistono superfici perfette, al contrario di quanto viene promosso a livello di società, e questo offre molta pace. Se la natura non è perfetta, perché dovremmo esserlo noi?
Fare arte nel territorio alpino, pensi che serva un approccio particolare?
Per quanto ho riscontrato, qui in Alto Adige, molti dei bandi e delle opportunità per artisti che vengono proposte sono collegati alla montagna. È il filone principale. Tuttavia, ci sono alcune opportunità, anche molto importanti, che considerano altri aspetti oltre a quelli montani. Si può dire che nel tempo la comunità si è aperta e non è più così autoreferenziale come qualche anno fa.
In definitiva, a tuo avviso quale rapporto c’è tra arte e montagna?
Oggi, il mondo dell’arte contemporanea è molto spesso site specific e c’è quindi un legame molto forte tra opera e luogo. L’arte è un ottimo strumento capace di interagire bene con l’ambiente che la circonda, sia esso urbano, naturale, e perchè no, anche montano. L’arte contemporanea concede spazio a tutte le tematiche in qualsiasi luogo. Al contrario, invece, il mondo della montagna mi sembra essere più autosufficiente; si trova lì da millenni, bellissimo, e basta a se stesso. È più il mondo dell’arte che ha bisogno della montagna, non viceversa.
Daria Akimenko © Archivio Daria Akimenko