© Courtesy Daniela BruggerSenza considerare le due calotte polari, in tutto il mondo ci sono circa 158.000 chilometri cubi di ghiaccio custoditi in oltre duecentomila singoli ghiacciai. Con il loro grido di silente agonia, intermezzato ogni tanto da roboanti slavine, parte di queste riserve glaciali è localizzata sulle Alpi. C’è chi, per mezzo della propria arte, tenta di tenere traccia di questi movimenti, sempre più veloci e sempre più evidenti. È il caso dell’artista e fotografa Daniela Brugger.
Nata nella frazione di Certosa/Karthaus nel comune di Senales, dove vive e lavora come fotografa, Daniela Brugger è un’artista che ha all’attivo svariate mostre, sia in Italia che in Austria. Il medium espressivo prescelto da Brugger è la fotografia, che mette in dialogo anche con elementi esterni. È ciò che avviene, ad esempio, con il progetto “0.32 m – The Glaciers are Melting”, dove l’artista tesse dei fili sulle fotografie così da dare evidenza dei vari stadi di ritirata del ghiacciaio. Le montagne di Daniela Brugger sono montagne ferite, che si mostrano al contempo nella loro bellezza e fragilità. Ogni scatto tuttavia racchiude un microcosmo fatto di rocce, colori e fascinazioni che mettono in contatto lo spettatore con il messaggio dell’artista.
Daniela Brugger in montagna © Courtesy Daniela BruggerLa montagna è uno dei soggetti principali della tua arte, come lo è diventata?
Sono nata e cresciuta in Val Senales, e, quasi come fosse un tradizione famigliare, ho seguito le orme di mia madre e di mia nonna lavorando per parecchie stagioni in alcuni rifugi d’alta quota, qui, sopra la valle, come il Similaun e il Bella Vista. Così, la montagna mi è entrata dentro e ancora oggi mi piace viverla. Non solo per raggiungere la vetta, ma soprattutto per incamminarmi e perdermi un po’ in essa. Con il tempo poi, ho imparato a conoscerne la bellezza, ad esempio quella dei ghiacciai, che però, purtroppo, sono destinati all’estinzione. Già trent'anni fa si poteva osservarne il ritiro. Oggi, con il mio lavoro, punto a mostrarne l’estetica.
Quali espressività ricerchi, come ti approcci alla montagna?
Dalle grandi pareti rocciose alle piccole piante, nei miei lavori seguo, appunto, sempre l’estetica. Aspetti che spesso non si colgono al primo sguardo e che si deve saper aspettare per poter conoscere. Prediligo quindi piccole scene, quasi degli estratti di montagna, che creano un microcosmo fatto di luce e colori; un esempio è il mio progetto “Fireworks”, nel quale ritraggo l’erba dell’alpeggio. Con i suoi steli secchi, sembra che restituisca tutta l’energia dell’estate, come fosse un fuoco d’artificio, ma te ne rendi conto solo se guardi da vicino.
Un tema ricorrente nei tuoi lavori è il cambiamento climatico. Qual è il tuo approccio?
A livello personale, provo, per quanto possibile, ad avere un impatto ridotto sull’ambiente. Una vita più sostenibile in tutti gli aspetti. Come artista, cerco, attraverso progetti sempre nuovi, di lavorare sul tema del cambiamento climatico. Quello più recente è "Inside-out", che mostra una natura che sopraffà l’umano fino a entrargli in casa. È una forza della natura che non lascia scampo. Questo, per ricordarci che le case e i rifugi che costruiamo per tenerci al sicuro sono in realtà un’illusione.
Alcuni tuoi progetti, invece, sono proprio incentrati sui ghiacciai…
Sì, uno dei primi lavori - “0.32 m – The Glaciers are Melting” - è ambientato proprio vicino a casa, sui ghiacci del Similaun. Qui ho voluto rappresentare i vari stadi di scioglimento e l’ho fatto cucendo circa cinquant’anni di ghiacciaio andati perduti. Un gesto simbolico, quello del cucire con ago e filo sopra una fotografia, che ripesca il metodo antico, e tipicamente femminile, di provare ad aggiustare le cose.
© Courtesy Daniela BruggerTra le tue foto, anche quelle dell’ultimo ghiaccio sul Kilimanjaro. Come ci si sente davanti a una montagna di ghiaccio, che tra qualche anno sparirà?
Nel paesaggio lunare del Northern Ice Field, il ghiacciaio sul Kilimanjaro, mi sono sentita piccola. Uno può vedere attorno a sé i resti, alti uno o due metri, di vecchi distaccamenti che si stanno sciogliendo. Ti senti un granello, e anche colpevole. Del resto, i dati scientifici parlano chiaro: è in parte opera dell’uomo. Tuttavia, la mia non vuole essere una rappresentazione archivistica dei cambiamenti in atto, ma dell’estetica insita nell’ineluttabile scomparsa dei ghiacciai.
Il linguaggio artistico è sempre più utilizzato per parlare di antropocene, è la via da seguire?
Sì, anche se forse ultimamente è un po’ una moda. Da un lato è anche un bene perché, ad esempio attraverso la fotografia, che è un linguaggio visivo e immediato nel comunicare, si riescono a sensibilizzare più persone. In fondo, se è utile alla causa, perché no?
Cosa significa fare arte contemporanea in un paesino montano abitato da poco più di trecento persone e noto per il suo silenzio?
Chiaramente, non è qui che punto a farmi conoscere, ma guardo fuori, come all’Austria. Tuttavia, Certosa ha una lunga storia di attenzione verso il mondo dell’arte, un esempio è la biennale nel vecchio convento Kunst in der Karthause. Ogni tanto, comunque, per trovare la giusta ispirazione devo spostarmi e uscire dalla valle, anche se finisco per scegliere sempre contesti naturali.
La natura come soggetto artistico: tutto è già stato detto?
No, c’è sempre qualcosa di nuovo da dire. Per me tutta la natura è importantissima e non smette di parlare. Più passano gli anni, più noto che ho bisogno della tranquillità che ti offre la natura per trovare l’equilibrio, la giusta ispirazione. Al contrario, non mi piace fotografare contesti rumorosi o affollati, ricerco l’essenzialità del silenzio che in sé racchiude già tutto.
© Courtesy Daniela Brugger