Montagne d'arte. CHIARA GAMBIRASIO

L’arte di Chiara Gambirasio si pone in dialogo con il paesaggio montano, attraverso l’osservazione e la trasformazione costante della materia
GAMeC, V'arco © Nicola Gnesi

Artista con una forte passione per l’ambiente montano, Chiara Gambirasio ha recentemente partecipato alla mostra Pensare come una Montagna, organizzata da uno dei musei di arte contemporanea più frizzanti del panorama italiano, la GAMeC di Bergamo. Se fin da bambina Gambirasio trovava nelle escursioni e nella frequentazione dei boschi una fonte di rinnovata energia, oggi l’artista bergamasca riconosce nella montagna un nuovo stimolo, che le permette di conferire alle proprie opere un carattere di leggerezza ed essenzialità.
Profondamente legata al paesaggio, l’arte di Chiara Gambirasio è guidata dall’osservazione attenta dell’ambiente circostante. Negli anni, l’artista ha sviluppato una propria filosofia, che è allo stesso tempo guida per la propria ricerca e strumento artistico. La Kenoscromìa, questo il nome attribuito da Gambirasio al proprio pensiero, parte infatti dal punto di osservazione sul mondo, che cambia costantemente, e affonda le radici nella giustapposizione di colore e vuoto, dalla cui vibrazione scaturisce la rappresentazione del reale.
 

In che modo la montagna influenza la tua ricerca artistica?

Non saprei dire se ha cambiato il mio modo di lavorare, sicuramente l’ha ripulito da tutto ciò che è superfluo. Lo definirei un processo di rarefazione e di conseguenza un alleggerimento delle cose importanti così da permettergli di emergere in superficie. Ne è esempio il lavoro che è nato durante il mio periodo di residenza artistica nei pressi di un rifugio alpino a più di 2000 metri. Intitolato Ammiraggio, è tra i più leggeri e poetici della mia produzione. Si tratta di un’opera effimera, basata su pigmenti vegetali e neve, e che si è manifestata come necessità di quel luogo, di quel momento.
La permanenza per oltre un mese in quota mi ha aperto alla consapevolezza che in fin dei conti tutte le opere sono effimere. L'unica cosa diversa è la scala di tempo che si utilizza per misurarne il mutamento. Osservando ciò che sta attorno, mi sono resa conto che la materia subisce una trasformazione costante e questo mi ha permesso di capire quanto in realtà sia rilevante il punto d’osservazione. Lo stesso soggetto cambia nel tempo, così come la luce che illumina l’opera e di conseguenza l’opera stessa. Da qui, è nato spontaneo l’interrogativo su come documentare le opere d’arte. In montagna, va da sé, con il meteo che cambia repentinamente tutto questo è molto più evidente.

Parliamo del tuo approccio filosofico, la Kenoscromìa: come sono collegati colore e montagna?

Negli anni ho fatto esperienza dell’aria più nitida che c’è in montagna. Vuoi per la temperatura o per la densità dell’aria montana, sembra di vederci meglio. Per certi versi è proprio così, essendoci meno acqua nell’aria è più facile arrivare a vedere lontano e riconoscere persino i dettagli. Il legame tra colore e montagna ha quindi a che fare con la specificità delle condizioni atmosferiche, che possono portare un aumento delle nostre capacità percettive. Allo stesso tempo, in montagna si vede meglio anche perché, banalmente, ci sono meno distrazioni.

E il vuoto come lo colleghi alla montagna?

Credo ci siano moltissimi punti di contatto. In montagna, e questo è un fatto, si pesa di meno. La montagna, con tutta la sua densità e gravità, quando l’hai sotto i piedi ti fa sentire più leggero. Il vuoto, quindi, entra in te come un alleggerimento e provoca un’apertura dell’animo a un potenziale di ascolto maggiore. Pesando di meno, è come ci fosse più spazio nel corpo che permette di aprire degli spazi interiori al fine di accogliere gli stimoli esterni. È qualcosa che può fare paura perché vengono meno gli appoggi, però tanto più ci si alleggerisce, tanto più si può vedere.

Da artista, come consideri l’intervento umano in un ambiente selvaggio?

Non penso ci sia del male nel fare delle installazioni in un luogo montano, così come non lo penso per gli interventi fatti in città. Per me non c’è una reale differenza a livello di responsabilità nel fare un gesto artistico in città o in montagna. Ciò che non deve mancare è la responsabilità di chi porta avanti l’atto. Per me l’intervento artistico non si conclude con il posizionamento dell’opera nell’ambiente, ma si compone di una serie di gesti che evolvono nel tempo, è un modo di stare al mondo. Naturalmente, nei lavori che propongo cerco di limitare gli scarti e soprattutto faccio in modo che ci sia un rapporto con il luogo. Probabilmente, per non inquinare non dovrei fare nulla. Tuttavia, ho la responsabilità di decidere come. Se perfino un gesto che comporta degli scarti, porta con sé un aumento di vitalità, non solo nell'artista ma in tutte quelle persone che interagiscono con l’opera, allora per me non è un processo così distante dalla nascita di un fiore, che compie il suo ciclo vitale fino a diventare concime per le piante della stagione successiva, affinchè possano fiorire. Del resto, anche il semplice camminare modifica il paesaggio. Nulla è permanente.

Molti artisti il paesaggio lo rappresentano, com’è lavorare direttamente su di esso?

La prima reazione che ho all’entrare in un contesto naturale è pensare che sia già perfetto così. Tuttavia, a mano a mano che mi integro nel paesaggio, è come se il luogo aprisse un piano per me. Nasce così una necessità, che va trasformandosi in opera e che cambia di volta in volta in modo imprevedibile. È il rapporto tra una condizione nuova e il luogo stesso, che fa luce su alcune parti di me. È come se io fossi un prisma che filtra luce che già c’è e la restituisce rielaborata.

L’ultima mostra che ti ha vista protagonista si intitola proprio Pensare come una montagna, quanto diverso pensa un artista?

So che a me, per questa mostra, sono usciti due interventi molto diversi tra loro. È come se avessi portato in superficie due modi di pensare come una montagna. Uno più paesaggistico, con l’opera V’arco, dove, come una montagna, l’osservatore è portato a vedersi da fuori, come se ci fosse un punto di vista che è molto lontano. L’altro è invece uno sguardo più profondo e intimo. Nella progettazione dell’opera M’ama mentre preparavo i bozzetti e disegnavo, a un certo punto ho realizzato che dovevo essere io a sentirmi montagna. Dovevo diventare montagna per portare al di fuori di me una scultura, e come una montagna volevo abbracciare ed essere abbracciata.

Nei tuoi lavori usi molte tecniche e materiali diversi, come cambia il tuo approccio rispetto ad essi?

Il gesto che genera l’opera e che cerco di perseguire è sempre lo stesso. Si tratta di una pennellata nello spazio, che cerca di coinvolgere la cangianza del reale. Proprio come il prisma che intercetta la luce circostante, la assorbe e la restituisce trasformata. Al tempo stesso, le mie sono opere molto materiche. Sotto sotto, è tutta terra. Quando lavoro con il colore, lo considero una massa colorata. In questo caso, la pennellata nello spazio a cui accennavo non è solamente una metafora. Con la sua stesura, il colore compie un passaggio da stato liquido a solido in poco tempo. È un processo che mi sembra emulare, in una dimensione ridotta, i cambiamenti geologici della sedimentazione che ha dato origine alle montagne stesse. Infine, i pigmenti che utilizzo sono spesso pigmenti minerali, che originano dalle montagne, così come gesso, polvere di marmo o cemento.

In definitiva, come si legano arte contemporanea e montagna?
Un legame si genera nell’incontro, nella sua perpetuazione e, soprattutto, nel viverlo. Potenzialmente, si può collegare qualunque cosa, e questa di fatto è la base dell’intelligenza. Un conto però è legare gli elementi razionalmente, con l’impiego della logica. Altro conto, invece, è vivere quei legami che si vogliono creare. Se uno vive con l’arte e con la montagna non può che finire per creare un legame. Però, a mio avviso, dev’essere un legame spontaneo, non forzato, che nasce dalla necessità di vivere il momento non tanto per raccontare una storia.

Chiara Gambirasio © Michela Longone