Montagne d'arte. Angelo Bellobono

La pittura di Bellobono racconta un territorio vissuto in prima persona. Come fossero fototrappole, le tele dell’artista raccolgono tracce e testimonianze.
© Archivio Angelo Bellobono

Immergersi nel paesaggio così da poterlo dipingere. Angelo Bellobono, artista montanaro che ha dedicato agli Appennini la maggior parte della sua produzione, non la considera una metafora, al contrario, lo intende letteralmente. Quella di Bellobono è infatti una pittura esplorativa che mira a riportare sulla tela non solo le impressioni raccolte lungo le sue escursioni, ma vere e proprie tracce lasciate dall’ambiente. Fatti di colori a tratti accesi, terre applicate, sfumature rarefatte che richiamano vagamente il profilo di un monte, i dipinti del pittore romano suscitano nel pubblico una sensazione di spaesamento e al tempo stesso di conosciuto.

Distanti dalla classica rappresentazione paesaggistica, le opere di Bellobono raccontano la sofferenza degli Appennini, considerati dall’artista in un dissesto socio-geologico e nel loro ruolo di cerniera e collante tra territori diversi. Affascinato dalle aree interne, non solo italiane, Bellobono arriva a considerare il Mar Mediterraneo come un grande lago di montagna, circondato com’è da una corona di catene montuose. Lungo i suoi molti spostamenti - non ultima la risalita delle principali vette appenniniche - Bellobono nei suoi progetti coinvolge anche le persone del luogo, a volte offrendo una semplice escursione, altre volte chiamandole a partecipare alla produzione artistica stessa.

© Archivio Angelo Bellobono

Artista e montanaro, come tieni insieme questi due mondi?

Le due cose sono sempre andate di pari passo. Sin da bambino, amavo disegnare, e ben presto ho coltivato un legame stretto con la montagna. Nei fatti, quando non dipingo, la montagna è oggi una parte importante della mia professione. Sono infatti guida ambientale ed escursionistica, maestro e allenatore di sci. Col tempo, non ho fatto altro che fondere insieme queste mie diverse identità, cercando di collocarmi in un rapporto corporale di appartenenza nel territorio. Ne è derivata una sorta di stratificazione geologica delle diverse identità. Anche se non è sempre stato facile, attraverso il mio lavoro penso di essere riuscito a dimostrare che si può essere una e tante identità insieme.

Nella tua arte il tema del territorio è molto presente, che cosa significa per te?

Come avviene rispetto al legame con il territorio, per me la pittura va abitata. La vivo e l’attraverso con il mio corpo, ancor prima di rappresentarla. L’atto stesso di attraversare determinati territori per me è pittura. Qualcuno lo considera un atto performativo ma per me non lo è. Per come lo tratto io, il paesaggio non è rappresentato in maniera contemplativa. Cioè, non osservo una montagna o un cielo e poi lo riporto sulla tela. No, per me è qualcosa che ti si attacca addosso, un insieme di sensazioni fatte di rovi, sudore e fango. È questo che riporto sulle tele. Certo, per chi lo vede da fuori può diventare a volte spiazzante, però fare esperienza di paesaggio è prima di tutto diventare paesaggio, riconoscere che ne siamo profondamente parte.

E il territorio diventa letteralmente parte delle tue opere…

Sì, molto spesso realizzo dipinti che chiamo trappole pittoriche. Come fosse una fototrappola, vado a piazzare la tela in un determinato luogo e ne raccolgo le tracce. Ad esempio, nella valle del Samoggia sul pendio di un calanco del Rio Tradito, ho esposto la tela un paio di giorni sotto un temporale, dopodiché ho lavorato sui segni lasciati dal dilavamento lasciandomi guidare e dialogando con ciò che ho trovato sulla tela. Mi interessava mostrare il processo di disfacimento del calanco, che altro non è che una montagna che scompare e ritorna al mare, per erosione.

Monte Appennino-Terra di vetta delle montagne più alte di ogni regione su tela © Archivio Angelo Bellobono

Tra i tuoi paesaggi prediletti c’è sicuramente quello appenninico. Come lo vivi?

È una grande colonna vertebrale, molto fragile sia dal punto di vista geologico che sociale, che unisce l’Italia lungo tutte le direzioni. Con la mia pittura porto avanti un lavoro di cura e di cucitura verso questa spina dorsale. Ad esempio, con il progetto Linea Appennino 1201 ho risalito, dall’Aspromonte fino al Monte Maggiorasca in Liguria, le principali cime di ogni regione raccogliendo e catalogando la terra presente in vetta per poi utilizzarla nella realizzazione di un dipinto intitolato Monte Appennino. Un monte che di fatto non esiste, ma nasce dalla mescolanza e l’unione di tutte queste terre. Simulando le tante cime che tengono insieme più regioni, come ad esempio il Pollino o il Vettore, con il mio Monte Appennino ho operato un atto simbolico di ricucitura, di questa catena un po’ malconcia e dimenticata.

La tua è quindi un’arte itinerante?

Non tutta la mia pratica è di questo tipo. Amo molto anche dipingere in studio, da solo con la mia musica, perché la pittura è anche un modo di esplorare sé stessi. Tuttavia mi piace portare la pittura all’esterno, andarla ad abitare. Ci vedo molti paralleli con la montagna. In fin dei conti, ogni quadro è come fosse l’inizio di un sentiero poco battuto, dove diventa importante stare attenti e carpire i segnali intorno per intuire dove andare.
Anzi, nel progetto Mappa Appennino ho sostato a lungo in cinque località diverse, lungo la catena appenninica, per quelle che chiamo “spedizioni appenniniche”. Una di queste è stata sul Monte Marrone nelle Mainarde a Capanna Moulin. In quest'occasione, ho ripercorso le tracce del pittore francese Charles Moulin, amico di Matisse, che nel 1920 costruì il riparo ancora esistente e dove trascorse circa sessant’anni. È stata un’esperienza molto intima, che mi ha permesso di immergermi nella natura selvaggia e raccogliere ulteriori ispirazioni. Durante l’ultimo giorno, poi, ho organizzato un’escursione aperta al pubblico affinché potessero vedere le opere realizzate.

Tanti sono anche i tuoi progetti di comunità. Cosa ti ha spinto a iniziare questo filone?

Non c’è un inizio preciso, è un approccio che è venuto da sé e l’ho coltivato. Uno dei miei primi progetti di questo tipo è stato Atla(s)now, con il quale volevo raccontare l’Africa dal punto di vista del ghiaccio e del freddo. Così ho dato il via insieme ad altri artisti europei e africani a una residenza artistica ai piedi del Toubkal, sulla catena dell’Atlante marocchino. Abbiamo creato un museo diffuso, fatto laboratori e alcune guide alpine italiane hanno formato dei ragazzi del luogo. È stato un modo per mettere insieme le mie competenze montane e artistiche, ma soprattutto per condividerle con gli altri.
Ci sono state poi altri progetti, da quello con la tribù Lenape a quello con le scuole di Amatrice, ma queste sono altre storie.

Qual è il destino degli Appennini?

Da una parte, ci sono oltre 5.300 paesi di montagna fantasma, ormai abbandonati. Dall’altra, oggi stiamo vivendo la grossa retorica del “mollo tutto e vado a vivere in montagna”. Molti approcciano la questione troppo alla leggera e si scontrano in seguito con una realtà che è molto meno edulcorata di come si aspettavano. In montagna, i tempi si prolungano, serve più fatica e più  impegno. Per questo tanti ritornano sui propri passi. Se si vuole che la gente viva in montagna servono anche le infrastrutture a permetterglielo. Tuttavia, non per questo la montagna deve diventare un parco giochi selvaggio per i turisti della domenica. A mio avviso, serve uno sviluppo mirato.
 

Il mondo dal buco - olio su tela © Archivio Angelo Bellobono