Montagne d'arte. Adolf Vallazza

Lo scultore di Ortisei racconta la propria valle mostrandone il volto più sincero ed entrando di diritto tra i grandi dell’arte contemporanea.
© Andrea Bedin

Vista con gli occhi di chi ci è nato e l’ha vissuta sulla propria pelle per un secolo, la Val Gardena ha perso la sua poesia originaria. Trasformatasi negli anni in un formicaio a cielo aperto, la valle brulica oggi di una massa apparentemente informe, costantemente impegnata in attività adrenaliniche e ripetitive. Dall’inverno all’estate, gli impianti di risalita e i sentieri boschivi ospitano sciatori, turisti e i più moderni e-biker, che affollano la valle dove un tempo sorgevano pochi masi solitari e un florido artigianato del legno. Come accaduto agli altri luoghi di punta delle Dolomiti, questo processo di omologazione ha causato la perdita di originalità che ne identificava la poetica.

Per Adolf Vallazza, classe 1924, è infatti l’originalità uno degli aspetti più importanti nel lavoro di un artista. Primo tra tutti ad abbandonare l’artigianato tradizionale, fatto di crocifissi e viae crucis, Vallazza si dedica allo studio dell’arte contemporanea ricalcando inizialmente le orme del primo futurismo e arrivando a elaborare un astrattismo metafisico, quasi magico, che si rifà all’arte tribale africana e ai più moderni Brancusi ed Henry Moore. Attraverso l’impiego del legno recuperato dagli antichi masi della valle, l’artista ridona dignità di vita a un materiale povero ma pieno di storia, trasformandolo in opere d’arte di caratura internazionale.

© Archivio Vallazza

È stato il primo scultore a staccarsi dalla tradizione gardenese per seguire una personalissima ricerca verso l’astrattismo. È stato difficile?

Assolutamente sì. Certo, ho cominciato con il figurativo anch’io, perché è giusto che un artista metta delle basi solide, ad esempio studiando l’anatomia, ma poi, con il tempo, ho cominciato a stilizzare e dare spazio alla fantasia. Mi ricordo che la gente diceva: era un così bravo scultore, ma adesso fa delle scemenze. E io allora lasciavo correre, perché già organizzavo mostre importanti. Sono stato il primo qui in valle a cambiare l’artigianato in arte. Oggi, invece, ci sono diversi artisti.

Dove ha trovato la forza di andare avanti?

Nella passione per l’arte. Inizialmente, scolpivo ancora le viae crucis, anche se le trovavo noiose e ripetitive. Dovevo farlo per mantenere la famiglia. Però il sabato lo dedicavo allo studio. Mi piaceva molto quello che facevano i grandi scultori del Novecento come Henry Moore, Brancusi e Marino Marini e mi dicevo: guarda cosa si può fare! Certo, all’inizio copiavo, perchè per me era una cosa troppo difficile cambiare tutto d’un tratto. Ma poi c’è stato l’incontro con questi legni antichi.

Quella del legno è una tradizione in Val Gardena. Lei come lo usa?

Lavoro con legni di masi antichi. Alcuni sono pezzi di porte, di pareti, anche di pavimenti. Quello che uso è un legno consumato dal vento e dalla storia, che ancora pulsa in esso. Guardando con attenzione, si vede come i nodi emergono dal legno, corroso dal calpestio delle borchie sotto i vecchi scarponi contadini. Tutto ha avuto inizio quando ho visto il vicino di casa che stava per bruciare della legna di un vecchio maso. Vedendola mi sono detto: ma come si può bruciare un legno così bello, come si può! Mi ha talmente impressionato, che con quel materiale povero ho scelto di costruire. E lo faccio ancora, però ora di masi antichi non ce ne sono quasi più.

Che rapporto ha con la montagna, come l'ha vissuta e come la vive oggi?

Anche se non posso frequentarla molto, ancora oggi sono un amico della montagna. Ne osservo la bellezza. La natura è piena di arte astratta, basta solo osservarla. Non c’è niente da fare, nella natura c’è già tutto come architettura e geometria. Se guardi lassù sopra di noi c’è il gruppo del Sella. Sono dei monumenti che ti lasciano senza fiato.

Anche il suo amico Sandro Pertini era anche un amante di queste montagne...

Pertini era un mio carissimo amico, e amava la montagna. Veniva a trovarmi, e qualche escursione insieme l’abbiamo fatta. Ricordo bene quella volta quando ci siamo fermati in una malga a bere del latte fresco, si era emozionato. Gli piacevano molto anche le mie sculture. Era un idealista lui. Parlavamo insieme seduti sul divano di casa mia quando sono arrivati i Carabinieri per portarlo a Roma. Era il 1980 e c’era appena stata la Strage di Bologna. Mi ha detto: “ragazzo ti saluto”; ed è andato.

Molte delle sue opere sono intitolate Totem, Menhir e Troni. Nascondono storie diverse?

Inizialmente ho lavorato su composizioni figurative che si richiamano alle vecchie famiglie e tradizioni della Val Gardena. In seguito, sono venuti Totem e Menhir, emersi dall’osservazione della natura. Infine, sono venuti i Troni. Ringrazio sempre mia moglie per avermi dato l’idea iniziale. Vedendo che creavo sempre questi totem, un giorno mi disse: “non puoi fare un qualcosa di pratico con questi totem?”. E così ho fatto la prima sedia. È stato bellissimo, ne ho fatte tantissime, non saprei dire quante, e ognuna è diversa.

È la verticalità delle Dolomiti che si rispecchia nello slancio dei Totem e dei Menhir?

Certo, è una cosa che mi ha sempre impressionato. Guardando le mie sculture si può riconoscere questo senso di elevazione. Le mie sculture puntano tutte in alto, così come fa qualunque fiore, qualunque pianta, con la base sotto e un’elegante tensione al cielo. La montagna, devo dire, mi ha influenzato molto. Specialmente qui in Val Gardena, si è come portati naturalmente a guardare verso l’alto. È un dono avere una sensibilità che ti fa apprezzare certe cose.

C’è posto per l’arte contemporanea in un paesino di montagna?

Molti sono rimasti solo artigiani, ma ci sono tanti artisti talentuosi e di grande fama. Ognuno ha il suo stile e molti sono arrivati a un buon punto. Trovare la propria originalità è la cosa più difficile, viviamo sulle spalle dei giganti e vuoi o non vuoi caschi sempre nella tentazione di ripetere ciò che è già stato fatto. Del resto, anche se richiede tempo e serve molta esperienza, l'arte è la cosa più grande che uno può fare.

© Francesco Cestari