MONTAGNE D’ARTE. TEO BECHER

Attraverso i suoi scatti, a metà tra il documentario e il racconto, Teo Becher racconta i punti di contatto del paesaggio alpino con il mondo urbanizzato.
Hercynienne © Teo Becher

Al confine tra Francia e Italia, nelle Alpi di Lanzo e dell'Alta Moriana, lungo la valle solcata dal fiume Arco, che prende vita dall’acqua dei ghiacciai del Gruppo delle Levanne, Teo Becher è di casa. Profondo conoscitore del luogo, Becher ha trascorso in Moriana molte stagioni e da anni ne racconta l’identità registrando aspetti meno noti dei paesaggi circostanti. Le fotografie analogiche dell’artista francese sono infatti il frutto di un lavoro di ricerca a cavallo tra documentario e autobiografia.

Attratto soprattutto dagli elementi paesaggistici che mettono in evidenza i punti di contatto tra la dimensione urbana e quella “selvaggia”, il fotografo indaga come il paesaggio montano possa essere al tempo stesso oggetto di strumentalizzazione e di contemplazione. Lo sfruttamento economico, in particolare del fondovalle, convive nelle sue opere con una natura forte e persistente, che sembra ricordare allo spettatore la sostanziale differenza di scala tra chi guarda e chi, invece, è oggetto di osservazione. Nonostante la minore programmabilità del risultato rispetto alla versione digitale, il lavoro in analogico, con le sue imperfezioni fisiologiche, è funzionale alla narrazione di una montagna ferita, spesso immersa in un’atmosfera dark.

Come hai iniziato a lavorare con i paesaggi montani?

Dopo aver completato gli studi all’Accademia di Belle Arti di Bruxelles, ho trascorso qualche mese in Canada. Si può dire che durante quel viaggio è scattato qualcosa che mi ha spinto a interessarmi al paesaggio, soprattutto quello montano. Di ritorno in Europa avevo la mente piena di immagini e ho sentito una forte attrazione per le montagne. Sentivo che dovevo tornare a trovare quelle che conosco fin da quando ero bambino, quelle della Moriana. Sono luoghi dove conservo ancora oggi molti ricordi e ogni volta che vi ritorno mi si ripresentano.

Fotografare la valle è un modo per rievocare quei ricordi?

Certo, c’è una dimensione emozionale nei miei lavori. Si può forse riconoscervi un velo di tristezza e di nostalgia per un tempo felice che è passato, così come emerge dalle ambientazioni generalmente cupe. Il risultato di un’estetica, per così dire, invernale è dato proprio dalla scelta di non fotografare la valle durante il periodo estivo. Da un lato mi permette di esprimere meglio questa nostalgia, dall’altro lato la luce estiva appiattisce tutto e si perdono le molte differenze che si possono trovare in inverno, quando la luce cambia molto più velocemente e i contrasti sono maggiormente marcati.

All’inizio del tuo percorso ti muovevi nell’ambito del reportage. C’è un messaggio che vuoi trasmettere con le tue opere?

L’intero concetto del lavoro è riflettere la relazione che abbiamo come società con le montagne, che è una relazione di sfruttamento. In particolar modo qui nella Moriana dove i vantaggi economici derivanti dall’estrazione di materie prime sono evidenti. Il mio discorso si muove però su due canali: da una parte il considerare la montagna come utopia e dall’altro come risorsa economica. Si tratta del contrasto tra contemplazione e sfruttamento. Nel mio lavoro c’è sempre la riflessione riguardo al contrasto tra la rappresentazione collettiva e idealizzata della montagna, e quello che si incontra veramente quando ci si avvicina. Quella che porto avanti si può leggere anche come una riflessione sull’abitabilità. Abitare è, in buona sostanza, fare alpinismo.

Montagna e natura sono temi molto antichi. A livello pratico, come lavori per portare una tua visione?

Quando sono in ambiente, ogni momento può essere un attimo da immortalare con uno scatto. Tutto gira intorno all’umore che traspira il luogo. A volte, anche solo il portone di una vecchia casa di montagna può essere un buon soggetto. Resto quindi sempre attento e aperto a quello che mi si pone davanti. Nel pratico, mi piace molto lavorare per intuizioni. Vado in un posto, ci resto per qualche settimana e vedo cosa succede. Al tempo stesso, mi sposto molto nei dintorni, tanto che probabilmente ho macinato più chilometri in auto che a piedi, questo perché voglio andare lì dove le montagne e le persone interagiscono. Sono molto interessato dal punto di contatto con l’attività umana, che spesso si ferma alla media montagna. Porto avanti una ricerca viva che si basa molto sull’esplorazione dei diversi punti di vista sulla valle, dove ogni passo può offrire una nuova prospettiva, sia essa sull’aspetto più selvatico o sullo sviluppo industriale della valle.

Quali sono le tue fonti d'ispirazione, cosa influenza il tuo lavoro?

La maggior parte sono documentari su temi specifici, ma possono anche essere opere di altri artisti e fotografi. Tra tutti, mi piacciono molto i lavori di Aurore Bagarry e Alec Soth. Il fatto stesso che lavoro con la camera analogica, influenza l’esito delle mie opere. È una scelta che influenza molto il processo creativo perché necessita molto tempo e preparazione. Anche se nella fase di editing degli scatti ne enfatizzo alcuni colori, come azzurro o magenta, la base di partenza è comunque il colore già presente nella foto, non ne aggiungo artificialmente. Lo stesso vale per le bruciature presenti in alcuni scatti. Sono il risultato dello sviluppo in analogico e trovo che concettualmente funzioni molto bene con il racconto di una montagna ferita, lontana dagli stereotipi.

In definitiva, c’è una connessione tra arte e montagna?

Eccome, c’è un grande legame tra le due. Anche solo per il fatto che la montagna come simbolo fa parte del nostro bagaglio culturale. C’è una forte connessione tra l’umanità e la montagna, e così, per estensione, tra arte e montagna. E questo, vale per molte culture. Anche se non si è particolarmente interessati all’arte, in quanto persone, si è comunque impattati dal paesaggio montano. Durante il Medioevo e il Romanticismo le montagne venivano spesso considerate come minaccia, oggi abbiamo invece una visione più domestica. È come se la montagna fosse un riflesso della società. Ci racconta molto di come siamo.

Spesso fotografi anche le foreste. Cosa rappresentano per te?

Le foreste sono un soggetto sul quale mi sto focalizzando ultimamente, come nel progetto Emmêlement et autres histoires de forêts. È una derivazione del lavoro fatto in Moriana. Quando ho iniziato a fotografare le Alpi, ho sentito che i monti, insieme alle loro vette e pendici, avevano un’influenza su di me: una nostalgia che ho allontanato fotografandole. Adesso, quella sensazione la ricevo dalle foreste. È come un nuovo ciclo che si apre. Così come per le montagne, anche le foreste ci fanno sentire piccoli, ci insegnano l’umiltà. In generale, lo stato attuale delle foreste mi fa riflettere. È un posto così vicino a noi che al tempo stesso è selvaggio e minacciato. Per me è importante lavorare in questi posti, aumentare la consapevolezza delle persone su temi che sono anche ambientali.

Teo Becher © Eno Boutin