Archivio Jacopo Di CeraJacopo Di Cera, artista e fotografo fotomaterico, inizia il suo percorso artistico prendendo le mosse dal mondo della comunicazione. Dopo gli studi in economia, un periodo di lavoro presso una multinazionale americana, e dieci anni trascorsi a fare l’imprenditore con la propria agenzia di comunicazione, Di Cera si specializza in fotografia. Lo fa tra Roma, l’Appennino toscano e quello umbro, dove ha la possibilità di apprendere direttamente da grandi artisti come Oliviero Toscani e Fabian Cevallos.
Tra il 2016 e il 2018, Di Cera dà il via a una serie di progetti artistici paralleli, che indagano, da un lato, il legame tra materia e fotografia lanciando di fatto il movimento fotomaterico, e, dall’altro, l’annullamento della prospettiva attraverso l’utilizzo di droni e l’adozione di un punto di vista zenitale sul soggetto. Se con i progetti fotomaterici l’artista si concentra su aspetti specifici, utilizzando materiali fortemente collegati alla storia che vuole raccontare, così da conferirgli ancora più forza, come nel caso del legno delle imbarcazioni naufragate a Lampedusa, la prospettiva aerea e distaccata permessa dai droni consente all’artista di scoprire lati della quotidianità finora nascosti, dove dal mare alla montagna emerge, quasi per contrasto e disegnando schemi grafici astratti, la presenza umana nell’ambiente circostante.
Archivio Jacopo Di CeraCosa ti ha spinto a esplorare le inquadrature dall’alto?
Ho sempre avuto il desiderio di un cambio di vista radicale, ed è quello che ho perseguito e perseguo tutt’ora con la mia arte. Guardare le cose in modo differente permette di regalare a sé stessi e allo spettatore prospettive nuove. Era il 2018, quando iniziai a giocare con i primi droni, durante una calda estate sull’Isola di Procida. Alzando in volo l’obiettivo, mi si presentò un mare dal blu intenso interrotto da alcuni puntini bianchi sparsi: erano le barche. Sembrava un dipinto astratto e fu allora che mi resi conto che dall’alto si possono fotografare cose che altrimenti non vedresti. Nel farlo, adotto un punto di vista rigorosamente zenitale, cioè perpendicolare sul soggetto. Questo mi permette di annullare la prospettiva, non solo geometrica, ma anche quella sociale. Dall’alto siamo tutti uguali, sia il ricco che il povero sono messi sullo stesso piano. Si opera così una sorta di livellamento sociale. Infine, la prospettiva dall’alto permette di unire alcuni aspetti territoriali altrimenti non conosciuti. Un’operazione di ricucitura che permette una migliore comprensione dei luoghi.
E a filmare la Marcialonga, come ci sei arrivato?
Gli scatti e le riprese della Marcialonga fanno parte di un progetto parallelo dal titolo Infinity. Si tratta di video montati in loop affinché non si possa capire dove sia l’inizio o la fine. Solitamente, con le fotografie si punta a intrappolare un momento esatto, un’azione specifica. Si dice, poi, che l’emozione dura il tempo di un’azione, bene, montando i miei video in loop, punto a rendere infinita l’azione e di conseguenza le emozioni da essa scaturite. È con Infinity che inizio a scoprire la montagna in invernale. Prima la conoscevo solo nella sua veste estiva, quella delle tante estati trascorse sull’Alpe di Siusi. Mi piace molto il contrasto tra le due stagioni. In estate, prevalgono i colori vividi della montagna e anche le stesse persone sono diverse. Tendenzialmente, le ritrovo sdraiate mentre si godono il sole in un prato. In inverno, al contrario, lo sfondo dell’inquadratura è principalmente bianco, il che mi permette di giocare con gli altri colori presenti un po’ come se stessi dipingendo. Inoltre, chiaramente, le persone restano principalmente in piedi, e dunque sono le ombre il materiale artistico, alle quali si possono assegnare significati metaforici profondi. Le ombre sono un fil rouge importante nel mio lavoro sulla montagna.
Cosa ti ha spinto a trovare ispirazione nelle valli di Fiemme e Fassa?
Sono sempre alla ricerca del pattern, è la prima cosa che cerco in un’inquadratura. Con la macchina fotografica è più immediato e in qualche modo naturale, guardando attraverso l’obiettivo sai già cosa cerchi, e l’occhio è già predisposto a identificarlo. Salendo, invece, tutto si appiattisce e non è più così scontato. Lo schema grafico, tuttavia, rimane la guida delle mie scelte. Quando, in diagonale, intravedo un dettaglio o qualcosa che attira la mia attenzione, allora mi reco lì per posizionarmi perpendicolarmente. Diciamo che è la mia esperienza da comunicatore che riemerge e guida l’istinto. Un esempio è stato quando alla partenza della Marcialonga, con 7000 partecipanti in attesa di partire, ho intravisto una salita, un collo di bottiglia più avanti nel percorso. Sapevo che si sarebbero ammassati uno sull’altro come formiche nell’affrontare quel tratto. Attraverso questa esperienza, così come in altri progetti, ad esempio Italian Summer, mi sono ritrovato a mettere in mostra aspetti inediti di eventi molto noti e folkloristici. In un certo senso, è un’esplorazione, una riscoperta del nostro Paese che mi sento di portare avanti con i miei lavori.
Archivio Jacopo Di CeraChe tipo di soggetto è la montagna nelle tue opere?
Rispetto all’ambiente marino, al quale sono molto affezionato, la montagna ha meno variazioni sul tema. Generalmente, ritraggo elementi della presenza umana e aspetti locali che nei miei lavori sulla montagna spesso si traducono in figure di sportivi. Quello che mi fa impazzire sono proprio le ombre degli sciatori, o le geometrie delle seggiovie, che hanno una forza ipnotica.
C'è un contesto più adatto per i droni di altri?
Adesso tutti possono permettersi di volare con un drone e riprendere dall’alto. Da ciò, però, deriva anche tanta banalità. Abbiamo un sovradosaggio e un inquinamento di immagini. Il contesto, così come gli altri aspetti compositivi, vanno quindi scelti accuratamente. C’è poi anche un tema legale. Ad esempio, la città è considerata tutta zona rossa e ci vogliono permessi particolari, così come nei parchi naturali. In montagna poi ci possono essere teleferiche e seggiovie a rappresentare potenziali pericoli. Così come in montagna, l’esperienza conta tantissimo. Il resto, lo fa il gusto personale.
Arte e tecnologia, quale rapporto?
Ultimamente, c’è un costante dibattito sull’intelligenza artificiale e si è arrivati addirittura a definirla come nuova forma d’arte. A mio parere, la tecnologia è da considerarsi come uno strumento, è il pennello in più che possiamo dare a un artista per dipingere. Si tratta di uno stimolo ulteriore che fino a ieri rimaneva precluso agli artisti. Il drone, nel suo piccolo, ne è un esempio. Personalmente, attraverso la tecnologia ho avuto l’occasione di creare una serie di progettualità nuove. Sono molto affascinato dalle molte possibilità che rappresenta. Attraverso l’IA, si riesce a rappresentare ciò che non potrebbe essere. Letteralmente, questa tecnologia ti permette di raccontare l’impossibile. Un po’ come nell’alpinismo, forse, quello che non deve venir meno è l’aspetto esplorativo, di ricerca.
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