MONTAGNE D’ARTE. ARON DEMETZ

La tecnica scultorea di Aron Demetz svela le infinite possibilità espressive della materia, che diventa portatrice di un nuovo significato.
Senza titolo, legno e colori acrilici © Archivio Aron Demetz

Aron Demetz, tra più importanti artisti della Val Gardena conosciuti anche a livello internazionale, alla scultura ci arriva un po’ per caso. Chissà cosa ne sarebbe stato della sua ricerca artistica, se quel ragazzino, che inizialmente voleva diventare un odontotecnico, avesse davvero abbandonato la scuola d’arte. Successivamente, la vita spinse Demetz a continuare a lavorare il legno, materiale che tanto lo affascinava, e a innamorarsi così del mestiere di scultore. Oggi, l’artista gardenese collabora con numerose e rinomate gallerie d’arte sia in Italia che all’estero.

Legno scolpito, levigato, persino bruciato, e poi metallo, resina e marmo. L’arte di Demetz è una continua sperimentazione, dove la ricerca artistica è guidata innanzitutto dalla materia, mentre la forma - che presenta spesso sembianze umane - diventa contorno, perimetro entro il quale far emergere le potenzialità espressive dei diversi elementi. Sebbene il lavoro lo chiami spesso all’estero, negli anni lo scultore è rimasto molto legato alla Val Gardena, che ha scelto come base, nella quale trovare il giusto equilibrio per innovare, nelle radici di quella che è una tradizione artistica secolare.

Che tipo di materiale è il legno?

La scelta di scolpire il legno è stata naturale, considerata la grande tradizione delle sculture della Val Gardena. Mantengo però dei momenti nei quali mi dedico ad altri materiali, come ad esempio il bronzo. Guardando alla mia produzione si può notare come nel tempo la materia in quanto tale abbia occupato un posto di rilievo, mentre la forma è rimasta quella della figura umana. Per me è la materia, che da semplice mezzo, si fa veicolo di significato e assume un valore in sé. Ritengo sia la parte più importante di una scultura.  Al tempo stesso, materia, figura e spazio circostante, sono una cosa unica, un connubio di elementi diversi. La scultura funziona, se questi sono in armonia. Ci sono poi molti punti in comune tra la figura umana e il legno. Nel 2005, ad esempio, ho iniziato a far emergere gli elementi tipici di questo materiale, che prima coprivo con la pittura. La mia intenzione era quella di mostrare le cosiddette imperfezioni del legno, come i nodi, che possono essere un impiccio, ma se usati bene aggiungono significato all’opera. Allo stesso modo, ho iniziato a inserire la resina di pino, che rappresenta la vita stessa del legno, e successivamente anche il fuoco. Così come nella vita umana, le bruciature sono cicatrici. Nel tempo, la mia scultura ha seguito filoni diversi, lasciandosi ispirare dal materiale.

In montagna, il fuoco è un elemento di pericolo, che spaventa, lei lo usa sulle sue sculture. Come mai?

Dal 2010 al 2014, ho realizzato questa serie di figure bruciate, dove da alcune è nato anche qualche fungo. Il legno bruciato ricorda qualcosa di definitivo, è una materia bellissima e delicata, ma viene riconosciuta principalmente come significato di morte. Eppure sono figure che stanno ancora in piedi. Perché siano bruciate, e perché non si siano distrutte del tutto, resta un mistero. È questo un modo utile anche per stimolare la riflessione e lasciare al pubblico la possibilità d'interpretazione.

Come vive il rapporto con la tradizione della scultura gardenese?

Non ho mai rinnegato il posto da dove vengo. Quando ero uno studente, andare a New York, Parigi o Berlino sembrava fondamentale. Questa cosa però non l’ho mai capita, perché, alla fine, a diciott’anni dove vuoi scappare…Anche se vai oltreoceano resti comunque un gardenese. Sono esperienze importanti, certo, però dipende cosa uno ne fa. Evolvere il pensiero è importante certo, ma esprimerlo nelle opere è molto difficile. Se uno resta in Val Gardena e fa un buon lavoro, allora va bene lo stesso. Io sono rimasto, ho anche fatto il pastore per cinque anni, e mi sono reso conto che qui sto bene ed è anche una buona base per lavorare. Per molta gente sono uno scultore figurativo, categoria che fino all’emergere della Scuola di Lipsia non era molto considerata. Oggi, ci sono tanti coetanei che fanno anche cose più astratte e concettuali. Quelli più bravi, secondo me, sono comunque legati alla terra e ai tempi che corrono, senza illudersi di scappare. Anche nell’artigianato c’è molto potenziale. A volte basta un passo in più e si ha un’opera d’arte.

Il paesaggio che la circonda influenza la sua produzione artistica?

Penso di sì. In qualche modo la crudezza delle montagne dolomitiche la si può ritrovare nella mia modalità di lavorare il legno in modo strappato, come la forza della natura che spacca il legno degli alberi. Anche la roccia delle cime qui intorno presenta al tempo stesso parti molto fini, delicate, ma anche aspre e ruvide. Anche nella progettazione delle opere c’è un certo approccio quasi religioso che traspare, che sa di tradizione, come è tipico dei paesini di montagna.

La figura umana, invece, come si inserisce nel paesaggio?

Ci sono paesaggi esterni e paesaggi interni. Solitamente le sculture in bronzo o in pietra le penso per l’esterno, studiando il confronto con gli elementi già presenti per una realizzazione site specific. Negli spazi interni invece, come le sale delle mostre, è più difficile. Cerco di creare opere che abbiano una vita interna abbastanza forte, affinché possano adeguarsi a diversi ambienti.

Utilizza il legno ma anche altri materiali come resina, metallo, fuoco. Da dove passa l'innovazione artistica?

Gli attrezzi a disposizione sono quelli di tremila anni fa, e le cose sono destinate a ripetersi lungo il corso dei secoli. Credo quindi che ogni generazione di artisti debba riscoprire il mondo a proprio modo. Ad esempio, ancora oggi il nudo suscita scalpore, sembra quasi che ogni generazione debba nuovamente affrontare questo tema. Eppure, già Piero Della Francesca ci era passato, però con canoni che oggi, secondo me, non funzionano più. Per innovare, gli artisti devono guardare il tutto da un’altra porta, un’apertura nuova sul mondo e parlare con la gente del proprio tempo. Certo, non è facile, serve che funzionino insieme diversi aspetti come la qualità del veicolo, del materiale, etc.

E la tecnologia può essere d’aiuto?

L’innovazione e la tecnologia vanno spesso di pari passo ma non è mai una legame definitivo. Ad esempio, da qualche anno è ritornata in voga la pittura che ormai si dava per morta. C’è poi tutto il discorso sull’intelligenza artificiale, che però sarà un grande abbaglio per tutti quelli che la pensano come una facilitazione del compito dell’artista. Se tutti possono utilizzarla con facilità, a un certo punto non funzionerà più. L’artista dev’essere quello che pensa avanti e punta ad arrivare subito al nocciolo della questione di come può e non può essere usata la tecnologia. È stato così anche con tecnologie passate. Già quando ero uno dei primi che usavo la motosega mi screditavano perchè mi allontanavo dalla tradizione. Poi è stata la volta del pantografo, poi del robot. Per me sono semplici attrezzi, ho sempre pensato che si tratta comunque di tecnica, che sia la sgorbia, il robot o la fresa. Chiaramente, ogni attrezzo restituisce una superficie diversa e va scelta secondo criteri di funzionalità, riconoscibilità e leggibilità. In sostanza, ci sono cose che la macchina può fare e cose che non può fare. Sono certo che lo stesso Michelangelo se avesse potuto avrebbe usato il robot. Perché non è solo una questione di progettazione. Come scultore devi saper pensare l’opera e guidare lo strumento, traducendo la poetica della tua ricerca nel lavoro.
 

Aron Demetz con una delle sue opere © Archivio Aron Demetz