Mirko Masè: "Bisogna diffondere la cultura della montagna"

Il gestore di Rocksport racconta come è cambiata la frequentazione delle palestre: "La metà dei praticanti non va verso l'outdoor, ognuno però è libero di vivere l'arrampicata come crede"
Mirko Masè e Paco Dell'Aquila © M. Masè

Mirko Masè è alpinista, guida alpina e istruttore delle guide. A queste attività "tradizionali" di montagna, da più di 15 anni ha affiancato quella di gestore di più palestre di arrampicata. Oggi la Rockspot di Mecenate è un punto di riferimento nel milanese. Date le dimensioni e l'elevato numero di frequentatori, è anche un punto di osservazione privilegiato per capire le tendenze del climbing, che sembra essere arrivato a un punto di svolta epocale.

 

Delle persone che vengono in palestra, quante secondo te praticano anche all'aperto?

Secondo me, di quelle che vedo circa il 50%. La metà almeno non va fuori, perché è cambiato proprio il motivo per cui vengono in palestra.

 

Cioè la maggior parte dei praticanti non viene qui per allenarsi per l'outdoor?

Esatto. Vengono qua perché in palestra possono mantenersi in forma, divertirsi, stare in un ambiente dove ci sono musica, compagnia, dove si può socializzare. Io ho aperto la prima sede nel 2009 e inizialmente non era così.

 

Potrebbe essere dovuto principalmente all'aumento del numero dei praticanti o sono cambiati proprio gli interessi a livello globale?

Le palestre di roccia sono sempre esistite, solo che una volta erano all'aperto. La prima struttura artificiale al mondo si ritiene sia stata costruita a Seattle nel 1938, si chiamava Schurman Rock. Ma, indoor o outdoor, sono sempre state finalizzate all'allenamento. Solo che oggi c'è chi ancora arrampica per godere di un bel tramonto sulle Dolomiti, o per vivere una giornata su blocchi di granito nel bosco e vede la palestra come propedeutica. C'è chi invece viene a giocare, a tenersi in forma in un posto dove i colori, le atmosfere e l'ambiente sono diversi ed è contento così.

© M Masè

In questo scenario ha senso promuovere l'attività outdoor o, dato anche il sovraffollamento di determinate falesie, va bene così?

Il sovraffollamento c'è ovunque e io credo che sia nostro compito incentivare il movimento, la scoperta e la cultura della montagna. Senza cadere nel filosofico, io credo che se i miei utenti conoscono la storia dell'arrampicata e la bellezza di scalare all'aperto, poi verranno in futuro ad allenarsi anche più spesso. Vivranno un'esperienza più completa e non si stancheranno di questo mondo. Dobbiamo però lavorare sulle emozioni che la gente prova ad arrampicare, non sulla prestazione.

 

Come si tutelano i siti d'arrampicata all'aperto? Sia in relazione al problema del sovraffollamento, sia per quanto riguarda per esempio le richiodature.

Se vogliamo parlare per forza di difesa di qualcosa, vogliamo immolarci per la causa e vogliamo fare qualcosa di buono...se siamo convinti…dobbiamo però farlo sempre attraverso la cultura. Non negando qualcosa, ma promuovendo un uso consapevole, che parte dalla conoscenza della storia di un posto, della gente che ci ha arrampicato e lavorato. Se vengo in palestra so che c'è qualcuno pagato per allestire le vie, ma se vado fuori, magari do per scontato che tutto quello che scalo è gratis. E invece il chiodatore ci ha investito soldi e tempo, per cui quel posto va rispettato. Faccio dei piccoli esempi: se voglio davvero essere rispettosto, le prese vanno pulite dalla magnesite, la moulinette la posso fare sui miei moschettoni e non su quello della sosta.

 

E sulle richiodature? È giusto cambiare in nome della sicurezza?

L'etica si risolve semplicemente, con il rispetto di coloro che sono arrivati prima. Se qualcuno ha trovato una linea e ha adottato uno stile, ma io che arrivo dopo chi sono per cambiarla? Certo, con gli occhi di oggi, tante cose fatte in passato possono apparire fuori luogo, ma comunque rispettano il sentimento di un epoca, di un periodo. Se andiamo a schiodare certe vie, allora dovremmo anche andare a smontare le ferrate. Ma, se invece che litigare, noi lavoriamo con le nuovi generazioni sulla cultura, in futuro arriveremo a non avere una fila di spit vicino a una fessura. Alla fine possiamo giocare con varie tecniche, ma devono essere la roccia e la cultura a indirizzarci.

 

Andiamo per esempi. In Grignetta hanno fatto un buon lavoro? A distanza di anni io credo che si possa dire di sì.

In Grignetta hanno lavorato al tempo con alcuni chiodatori ancora in vita e hanno deciso così anche in accordo con loro. Il luogo era ed è molto frequentato, inoltre hanno rispettato la chiodatura originale. Però questo non vuol dire che se vai al Peak District sono tutti da incarcerare perché sono degli assassini. Per fortuna c'è chi ragiona in un modo e chi in un altro. A me non piace chi vuole imporre il proprio modo di vedere e fare da un'altra parte.

© M. Masè

Parlando con alcuni alpinisti, mi hanno detto che di recente in Sardegna, ma anche in Trentino si registrano nuove chiodature ovunque. Linee che sembrano anche un po' "superflue". Siamo di fronte a una "smania" da chiodatori? Qual è il punto di equilibrio?

Non ce lo ordina il dottore di chiodare. Se su una parete c'è una king line - e magari c'è un motivo se sono passati proprio di lì- non per forza bisogna chiodarne un'altra. E poi magari una in mezzo, perché tanto c'è posto, e poi ancora in mezzo a quelle due. Volendo il posto si trova, ma perché invece non ragioniamo di più sul restaurare?

 

Forse perché la gente vuole vedere il proprio nome, la propria via.

Rivedere le chiodature esistenti, sistemare quello che abbiamo: quello è un lavoro socialmente utile, secondo me andrebbe valorizzato. Tutelare il patrimonio che abbiamo è importante. Ma per capire il valore di questa cosa, ancora una volta è fondamentale diffondere la cultura dell'arrampicata e della montagna.