Migrazioni verticali. Intervista a Andrea Membretti

Quello dei nuovi montanari è un fenomeno iniziato almeno 15 anni fa, ma il desiderio di vivere una vita migliore si sta fondendo con l'esigenza di affrontare il cambiamento climatico, pur nel contesto di un ecosistema da preservare. L'ultimo studio dell'associazione Riabitare l'Italia analizza le tendenze in atto, mostrandoci cosa potrebbe aspettarci da qui a 30 anni.

Per quanto rappresenti una delle sfide più pressanti e complesse che la politica comunitaria e nazionale si trovi ad affrontare, un cittadino europeo non potrebbe sentirsi più estraneo, a livello personale, dal termine “migrazione”. Non “ci” riguarda, non più. Questo perché di solito la migrazione è da un lato associata alle popolazioni disagiate del sud del mondo, dall’altro viene vista solo in orizzontale. Ma il cambiamento climatico la sta verticalizzando, spingendo sempre più persone verso l’alto, nella frescura della montagna, e come una “livella” non fa distinzioni fra classi sociali. Lo evidenzia l’ultimo studio dell’associazione Riabitare l’Italia, Migrazioni verticali, a cura di Filippo Barbera, Andrea Membretti e Gianni Tartari (pp. 216, 17 euro, Donzelli 2024), i cui numerosi contributi, con perizia da microbiologi, cercano di interpretare tendenze al momento ancora deboli, ma sempre più consistenti, per comporre un quadro di ciò che sarà da qui a 30 anni. L’argomentare tipico dell’ordinato modo di porre temi e problemi degli studiosi seri, fondato su dati, statistiche, interviste a persone reali, senza pregiudizi ideologici, rende quest’opera una fonte davvero interessante di spunti per comprendere l’attualità oltre la narrazione che ne viene fatta, ma soprattutto mostrarci la direzione in cui potremmo stare andando, invitandoci a interrogarci su quale possa essere l’approccio alla montagna più lungimirante e rispettoso.

Ne parla Andrea Membretti, dottore di ricerca in Sociologia all’Università di Pavia, che in particolare ha lavorato sul tema della migrazione in relazione ai giovani ed è tra i fondatori dell’associazione Riabitare l’Italia, un gruppo di volontari esperti che da anni studiano lo spopolamento delle aree interne, analizzandone le ragioni e proponendo un nuovo sguardo sul problema. È per questo che per Membretti nulla ci può salvare, nemmeno la montagna, se non cambieremo approccio.

Andrea Membretti, con migrazione verticale si intende un fenomeno interno, che non appartiene all’immaginario dei grandi movimenti migratori cui sono costrette fasce di popolazione in fuga da guerre e miseria. Significa che ci tocca molto da vicino. Partiamo da qua.

Abbiamo preso spunto dal mondo della biologia e dell’ecologia, dove si osserva lo spostamento verso l’alto degli organismi viventi come conseguenza dell’innalzamento della temperatura e dunque come strategia di adattamento, perché in alto si trovano zone più vivibili di quelle in basso, dove fa sempre più caldo. Il riferimento alla migrazione, non intesa però come movimenti internazionali dai paesi poveri del Sud del mondo, intende invece scardinare la narrazione retorica sul tema. Il cambiamento climatico ci pone tutti davanti a una sfida, non importa dove viviamo o quanti soldi abbiamo, e cioè affrontare la necessità o addirittura l’urgenza di muoverci. Siamo ormai tutti potenzialmente migranti, là dove la migrazione verso l’alto presuppone non più spostarsi per piacere, ma per bisogno.

La migrazione interna è un fenomeno ancora poco studiato, scrivete: quali sono i segnali che vi hanno indotto ad affrontarlo ora?

Io e i miei colleghi, un gruppo nazionale di varie appartenenze, prima con gli studi dell’associazione Dislivelli, di cui faccio parte, poi con quelli del Politecnico di Torino, sono almeno 15 anni che abbiamo la percezione – dati alla mano – di uno spostamento verso la montagna, soprattutto nel nord-ovest, per ragioni legate a nuovi stili di vita. Sono i “nuovi montanari” che lasciano la città in cerca di condizioni di vita migliori. Su questo fenomeno già in atto la pandemia ha catalizzato un’attenzione diversa, da un lato per le soluzioni abitative e lavorative messe in atto, come lo smart-working e le modalità di vita multi-locali, dall’altro per una narrazione giornalistica che ha un po’ ingigantito i numeri del fenomeno. Però abbiamo visto che le seconde case hanno iniziato a essere utilizzate di più durante l’anno, e riscontrato il fenomeno degli affitti a lungo termine, qualcuno ha cambiato la residenza. In più, come analizza Luca Mercalli nel volume, le ultime estati sono state le più calde di sempre, da quando esistono le rilevazioni (per l’Organizzazione Meteorologica Mondiale il 2023 è considerato l’anno più caldo in assoluto, NdR): il cambiamento climatico, con i picchi di calore e i fenomeni estremi ad essi collegati, ha dunque avuto un impatto maggiore sulle nostre vite. 

Il cambiamento climatico è la prima ragione che spinge le persone a migrare in montagna?

Non è il primo motore, ma il fattore che – aggiunto agli altri – fa la differenza. I “nuovi montanari” non ne parlavano nemmeno qualche anno fa. Oggi diventa importante perché al desiderio di adottare uno stile di vita diverso, sfuggendo allo stress della metropoli, aggiunge quello di poter vivere in modo multi-locale magari facendo smart-working, vivere cioè in modo “metromontano”, a cavallo fra città e montagna. Questi aspetti, spinti all’ennesima potenza, vengono ricondotti sotto l’etichetta di cambiamento climatico, che fra 15 anni non sarà più solo una condizione di scelta, ma una necessità. È la sfida cui siamo di fronte.

Il territorio montano, però, con la sua intrinseca fragilità, non è fatto per accogliere tutti. 

Certamente, e infatti noi non proponiamo una ricetta di trasferimento di massa, con accoglienza indiscriminata in montagna, che sarebbe una follia. Le Alpi e ancor più gli Appennini sono ecosistemi fragili, più della Pianura Padana. Gli eventi climatici estremi ce lo dimostrano, l’aumento delle temperature fonde i ghiacciai… La montagna però può avere una funzione compensatrice nei confronti della città. 

E non tutti sono fatti per vivere in montagna…

A Torino, con l’Università e la Città Metropolitana, da sette anni abbiamo attivato lo sportello “Vivere e lavorare in montagna” e da due la “Scuola di montagna” (la terza edizione si tiene dal 28 al 30 giugno, NdR) per aiutare gli “aspiranti montanari”. Le domande sono centinaia e rilevano una percezione diffusa di malessere e preoccupazione per il cambiamento climatico nelle grandi città. Il dato più interessante è che anche chi non ama particolarmente la montagna la sta frequentando di più, o addirittura inizia a pensare di poterci vivere per qualche mese all’anno. È lo stesso ragionamento che fa chi dagli Emirati Arabi va a passare l’estate in resort come Crans Montana, anziché nel suo Paese dove ci sono 55 gradi. 

Emerge con evidenza l’importanza che potrà avere la politica nella corretta gestione del fenomeno.

Servono politiche di gestione dei flussi. È inaccettabile che cui alcuni territori subiscano una pressione antropica crescente, magari anche del turismo mordi e fuggi della domenica mirato solo a scappare dal caldo torrido delle città, e altri, come è il caso di Crans Montana che ho analizzato con una ricerca sul campo, diventino spazi esclusivi, nel senso proprio che escludono la gran parte delle persone dalla fruizione del bene montano. Per noi vanno individuate delle politiche metromontane che considerino la montagna come bene comune e patrimonio collettivo della società, anche per chi vive in città. Chi vive nelle terre alte stabilmente va considerato come il custode della montagna, di cui deve avere la responsabilità. Ma la custodia non deve diventare appropriazione esclusiva, la montagna è una risorsa a cui devono poter accedere le categorie che ne hanno più bisogno, come gli anziani e i bambini, o chi soffre di patologie respiratorie. Nell’arco di un ventennio ampie fasce di popolazione in città per quattro mesi all’anno saranno a rischio anche grave per la propria salute. Le colonie alpine, le case delle parrocchie, gli alberghetti a 1000 metri che turisticamente non hanno avuto più successo, negli ultimi decenni possono invece diventare risorse per garantire il turnover delle strutture e limitare l’impatto antropico. Torniamo alla necessità di adottare politiche metromontane, come sottolineato da tempo con l’associazione Riabitare l’Italia.

Alla metromontagna avete dedicato un saggio (a cura di Filippo Barbera e Antonio De Rossi, 2021), qui in particolare si parla di residenza metromontana. In cosa consiste?

L’abitare metromontano ha a che fare con la crescente aspirazione a una vita che tenga insieme la dimensione metropolitana e quella montana, come è per i soggetti che intercettiamo con lo Sportello e la Scuola, i quali pensano di trasferirsi, o magari lo hanno già fatto per qualche periodo (perché possono fare smart-working o perché vivono un invecchiamento attivo in condizioni climatiche migliori), ma non hanno intenzione di tagliare i ponti con la città. Contrariamente all’immaginario degli anni ’80 e ’90, oggi si vuole rimanere metropolitani almeno in parte pur diventando montani, locali ma globali. Anche per il semplice fatto che molti in montagna sviluppano attività che necessitano di reti di connessione, non solo digitale, ma sociale, culturale, economica, imprenditoriale con la città. Questa è una tendenza crescente. 

Il territorio che voi analizzate in particolare è quello di Piemonte e Lombardia. Qual è la differenza fra Torino e Milano?

Torino è l’unica città italiana che attua da tempo politiche metromontane, cercando un equilibrio fra valli e città, Bologna ha iniziato un paio di anni fa, ma l’approccio generale è invece quello che vede la città assorbire la montagna senza attuare alcuna politica di integrazione. Invece Milano non ha un territorio montuoso al suo interno, pur essendo a pochi chilometri dalle Orobie, ha un rapporto debole con la montagna vicina, e molto più forte con il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta, per ragioni turistiche storiche, come rileviamo. Le Alpi centrali sono usufruite da bergamaschi, bresciani, varesini, non dai milanesi. Questo determina poi le scelte politiche. 

Nel saggio si parla dell’impatto che ha la narrazione della montagna sulle scelte abitative della gente. Quanto conta lo storytelling nell’orientare il rapporto fra uomo e montagna?

Per fare un esempio su tutti, allo Sportello abbiamo visto l’impatto che ha avuto un libro e poi un film come Le otto montagne di Cognetti, che ha avviato un modo diverso di narrare la montagna, rispetto a quello più tradizionale dell’alpinismo o a quello che la dipinge come una dimensione radicalmente diversa. Queste narrazioni insistono su una montagna che è in relazione con il mondo urbano, con i suoi movimenti sociali e politici. Eppure, per molte di queste narrazioni il comune denominatore è la Natura con la “N” maiuscola, quasi personaggio reificato, mitizzato, luogo terapeutico di rigenerazione, un’idea che arriva fin dagli anni ’70, ma che oggi porta a pratiche come il “forest bathing” o lo yoga nel bosco. Questo porta a forme di schizofrenia per cui da un lato si vuole il rewilding e la riconnessione con il selvatico, dall’altro la fibra per la connessione veloce: nascono contraddizioni come i “borghi”, che conducono a pratiche di privatizzazione di spazi che sarebbero altrimenti accessibili a tutti. Per questo abbiamo scritto un libro Contro i borghi (a cura di Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi, 2022, Donzelli, NdR).

La montagna ci salverà?

La montagna non ci salverà, il sottotitolo del volume è volutamente provocatorio e lo confutiamo subito. Ma può costituire una possibilità di integrazione di risorse all’interno di uno spazio metromontano, se lo vogliamo leggere come noi proponiamo. A qualcuno non piace, perché predica l’alterità della montagna, e pensa che questa si debba salvare da sola, proteggendosi dalla città e dai cittadini che altrimenti la colonizzano. Per noi invece la montagna è abbondantemente integrata da decenni: soprattutto guardando alle Alpi e alla Pianura Padana, non c’è un’alterità radicale, ma un’integrazione, bisogna capire come giocarla a favore dei territori. Noi non vogliamo che la montagna venga “rapinata” o gentrificata a vantaggio di piccoli gruppi di super ricchi che arrivano anche dall’estero, ma che diventi uno spazio di interconnessione con la città. Per questo ogni approccio salvifico per me è sbagliato: bisogna puntare piuttosto a una corresponsabilizzazione di cittadini e montanari. Andranno fatte delle scelte che possono sembrare utopiche nel nostro Paese: oggi non possiamo più guardare alla montagna solo con la lente dell’identità e della preservazione delle tradizioni, che non significa che debba soggiacere alla città. L’unico caso italiano di gestione dei flussi è quello di Venezia, dove è stata fatta una politica di monetizzazione, non di equo accesso. La stessa concezione la troviamo nelle Dolomiti con l’idea di mettere un pass per accedere alle Tre Cime di Lavaredo: gli introiti possono anche servire a mantenere la montagna, ma io sono scettico. L’accesso deve essere garantito in base alle necessità, non alle disponibilità economiche. Il discorso tocca le politiche demografiche, bisogna puntare sui nuovi abitanti, che sono una risorsa fondamentale.