Medicina ad alta quota: il risvolto scientifico della spedizione al K2

Si è ufficialmente conclusa la fase scientifica della spedizione K2-70, coordinata da Eurac Research di Bolzano. Ne abbiamo parlato con Lorenza Pratali, cardiologa del CNR che ha collaborato alla ricerca.
Al lavoro durante una spedizione © L. Pratali

Bolzano, mercoledì 14 agosto, intorno alle 19. Si è ufficialmente conclusa l’ultima fase del progetto K2-70: quella scientifica. La spedizione, voluta dal Club Alpino Italiano per celebrare il settantesimo anniversario della prima salita del K2, anche l’obiettivo di realizzare un’innovativa ricerca medica sulla fisiologia in alta quota e l’adattamento del corpo alla riduzione di pressione e ossigeno nell’aria. La ricerca è stata ideata e coordinata dall'Istituto di medicina d'emergenza in montagna di Eurac Research e ha coinvolto diverse istituzioni scientifiche e la Società Italiana di Medicina di Montagna - SIMeM. Lorenza Pratali, cardiologa del CNR di Pisa e appassionata di montagna ha seguito il lavoro anche dal campo base come responsabile sanitaria della spedizione. Carica gli ultimi bagagli in macchina e ci concede una lunga telefonata durante il viaggio che la ricongiungerà alla famiglia per il Ferragosto. 

 

Cosa avete appena concluso? 

«Dopo l’arrivo in Italia ci siamo trasferiti per gli ultimi esami nei laboratori dell’Eurac di Bolzano. Avevamo già svolto un lavoro analogo sulle 8 alpiniste partecipanti alla spedizione a marzo, poi proseguito direttamente sulla montagna e concluso oggi, al ritorno, per valutare l’adattamento fisiologico del corpo alle alte quote». 

 

Come si sono svolti gli esami in concreto? 

«Prima della partenza occorreva valutare lo stato di salute generale delle alpiniste e raccogliere una serie di parametri prima dell’acclimatamento. Hanno trascorso una notte e un giorno nella camera ipobarica dove venivano simulate le condizioni che si incontrano a circa 5000 m di quota, quella del campo base all’incirca. Le abbiamo monitorate in maniera estremamente approfondita sia durante la fase del sonno, sia sotto sforzo. Durante la spedizione non avevamo gli stessi strumenti a disposizione ma abbiamo proseguito lo studio attraverso la misurazione ripetuta di frequenza cardiaca e saturazione. Infine abbiamo ripetuto gli esami in laboratorio appena tornati dal Pakistan mentre i loro organismi erano ancora acclimatati. In questa ultima fase ci siamo avvalsi anche della collaborazione di Federico Secchi e Matteo Sella e Tommaso Lamantia, presenti sulla montagna con spedizioni collegate alla nostra, che si sono prestati per lo studio. Silvia Loreggian, Federica Mingolla e Anna Torretta avevano contratto un’infezione durante il viaggio di ritorno per cui non le abbiamo sottoposte a sforzi eccessivi perché i loro organismi erano già debilitati. Gli uomini invece sono stati esaminati simulando una quota pari alla vetta dell’Everest».

 

Che cosa avete analizzato? 

«L’obiettivo generale era valutare le funzioni cardiaca, vascolare, polmonare e cerebrale degli alpinisti a riposo e sotto sforzo, in situazioni di normossia e di ipossia e soprattutto prima e dopo l’acclimatamento. Per il tipo di approfondimento delle analisi e di strumenti utilizzati si tratta di uno studio inedito. Ne approfitto anche per ringraziare pubblicamente gli alpinisti che si sono sottoposti all’analisi perché sono stati molto disponibili a subire anche operazioni piuttosto invasive. Per esempio uno degli obiettivi era studiare i parametri del sangue arterioso con l’inserimento di un catetere nell’arteria radiale». 

 

Che tipo di risultati avete raccolto? 

«Per adesso abbiamo ricavato una mole enorme di dati che dovranno essere analizzati, confrontati e studiati attentamente. Non mi sento di avanzare alcuna conclusione perché sono sicura che verrebbe smentita dai risultati. Dovremo riunirci con i colleghi del CNR e di Eurac per fare le prime considerazioni e poi procedere con l’elaborazione». 

 

Ma dall’osservazione delle alpiniste sul campo, che idea ti sei fatta sull’adattamento del corpo alle alte quote? 

«In attesa dei risultati della ricerca, posso dire che la questione dell’acclimatamento rimane un argomento estremamente complesso. Per questo abbiamo impostato uno studio così approfondito ed elaborato. Come abbiamo visto durante la spedizione, non è soltanto una questione di allenamento. Le ragazze si sono presentate tutte in una forma davvero straordinaria, ma non è bastato. Ci sono altri aspetti determinanti che riguardano la fisiologia così come la psicologia. L’organismo di ciascuno reagisce diversamente al disagio provocato dalla diminuzione di ossigeno e pressione nell’aria, ma anche la mente: diventa anche una questione di sopportazione dei sintomi provocati dall’alta quota e di capacità nel riconoscere quando è ora di tornare a valle». 

 

Hai seguito la spedizione in qualità di ricercatrice, ma anche di medico. Che tipo di emergenze ti sei trovata ad affrontare? 

«Per fortuna soprattutto questioni minori come piccoli traumi, vesciche ai piedi, infezioni. Finché non abbiamo avuto la prima emergenza con la polmonite che ha colpito Samina Baig. Purtroppo le condizioni meteo in quei giorni non consentivano il recupero in elicottero per cui abbiamo dovuto provvedere con il trasporto a valle a dorso di mulo. Poi si è verificato l’incidente alla schiena di Cristina Piolini che ha richiesto l’evacuazione via aria. Infine il mal di montagna che ha colpito Silvia Loreggian e Federica Migolla all’ultimo campo. Con il salvataggio, grazie alla disponibilità non così scontata di molti alpinisti presenti, di Marco Majori caduto in un crepaccio possiamo essere soddisfatti di essere tornati tutti in discrete condizioni fisiche a casa». 

La dottoressa Lorenza Pratali © L.Pratali