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“Vai al sodo”. La voce ruvida di Mauro Corona finalmente compare dall’altra parte del filo, dopo un appostamento di settimane, come si fa con un raro animale selvatico. A differenza di un lupo solitario, però, l’alpinista, scultore e scrittore friulano non si concede per un’epifania fugace, ma generosamente conversa e polemizza, regala citazioni, punti di vista, idee, che possono anche non essere condivisibili, ma di certo non lasciano indifferenti. Non si può dire di molti.
L’occasione della chiacchierata è l’uscita dell’ultima opera, Lunario sentimentale (pp. 192, euro 19,00, Mondadori 2024), illustrato dai disegni di suo figlio Matteo Corona, un libro più “tenero e allegro” rispetto ad Altalene, pubblicato nel 2023 a 60 anni dalla tragedia del Vajont, quando il Monte Toc “perse la carne” e lui la sua infanzia, e molto altro. Come un calendario della memoria, Lunario sentimentale è un susseguirsi di capitoli che mese per mese ripescano dal passato usi e costumi della tradizione della sua terra, quella Erto e Casso che con Claut, Cimolais e pochi altri comuni costituisce la Valcellina, là dove il Friuli Venezia Giulia bacia la sponda nordorientale del Veneto.
Mauro Corona fuori dal suo studio. Foto Claudio Sforza.Mauro Corona, c’è nostalgia in questo libro?
La nostalgia è una compagna, come la solitudine, basta che non sia la nostalgia tragica di chi sente di aver perduto qualcosa. Lungi da me l’idea del si stava meglio, io sono ancora vivo, i miei amici del ‘50 sono quasi tutti morti. La nostalgia sono ricordi dolci che aiutano ad andare avanti, altrimenti è paura.
Come si fa a non avere paura di invecchiare?
Occorre rassegnarsi a quello che capita. Aver paura è normale, serve ad avere cautela e prudenza, ma non deve inibire di muoverti dal divano. Poi c’è una paura remota che purtroppo mi ha colpito, quella per le malattie incurabili, o curabili ma che ti lasciano annientato. Mi è successo con tre dei miei figli che sono stati “attinti” da malattie che fanno tremare i polsi. Questa è la vera paura. Non per me. Ho 74 anni e mi piace molto vivere, anzi, inizio ad apprezzare adesso la vita, mi aspetto di tutto e accetto di tutto, in base al dna che mi sono costruito, che non è solo i capelli e l’altezza che ci hanno tramandato i nostri genitori, ma quello vero che ti inocula l’esistenza. Per questo uno è di destra e uno di sinistra, ogni bambino viene indottrinato. E mi fermo con la politica perché mi fa schifo.
Perché la politica ti fa schifo?
Perché è falsa, perché non si occupa dei poveri, della miseria, della sanità che ti fa aspettare un anno per una visita. La politica si occupa di se stessa.
Il mondo che descrivi in Lunario sentimentale non esiste più, perché raccontarlo?
Mozart diceva che la vera musica è fra le note: è il non scritto che un libro deve suscitarti. Oltre che raccontare una storia, se è un romanzo, un libro deve cercare di salvare usi, costumi, tradizioni, culture che non esistono più, per quel sentimento di curiosità e voglia di documentare per cui esistono anche gli archivi di storia. Salvare la memoria: “Se c’è qualcosa che può sostituire l’amore è la memoria”, diceva Brodskij. È per questo che scrivo libri. Il Lunario lo fa con episodi tragici e spassosi, che raccontano il modo di vivere di quel tempo, così si può fare un paragone.
Come ne esce la società di oggi, ai tuoi occhi?
L’umanità si è incattivita. Una volta ci si accontentava, perché non vedevamo quello che c’era intorno a noi. Oggi i mezzi di informazione hanno allargato in maniera immane la possibilità di vedere cos’hanno gli altri e questo genera invidia, insoddisfazione, senso di fallimento, a cui si reagisce attaccando. Chi non ha o diventa saggio o cattivo. Ma c’è di più e lo vedo nei piccoli paesi. L’uomo alla lunga si stufa di stare bene: ha bisogno di guerra, non avrà mai pace perché desidera sempre ciò che non ha.
Non può essere una tensione positiva questa?
No, perché bisognerebbe essere buoni e intelligenti, e non lo siamo tutti. A Cartabianca alla Bianchina (Bianca Berlinguer, NdR) citavo Rudolf Steiner: bisognerebbe predisporre l’animo alla dolcezza prima di fare e dire qualunque cosa. Nemmeno io lo faccio. Mentre parlo ora penso alla gente inerme e innocente che viene massacrata in Ucraina o in Palestina. E come faccio ad andare a cena con un amico o arrampicare in montagna? Che senso ha la mia gioia, se là c’è il macello? Questa è la coscienza di un uomo, non di Zeno.
Ma ad arrampicare continui ad andare…
Perché sono un egoista, come tutta l’umanità. Lo faccio perché mi gratifica, mi fa sentire vivo, per me la montagna è come una garza che mi cura le ferite. Non è la conquista di una parete, come scrivevano un tempo: macché vincere, sei andato a medicarti con l’unguento della montagna, che fascia, cura e abbraccia. Ma ci vado da triste, perché “Il mondo è bello e feroce”, come il titolo del libro di Platonov (un vecchio Sellerio del 1989, NdR).
Dobbiamo rassegnarci?
Certo che no! Dobbiamo modificarci verso il bene! Combatto da 74 anni per migliorarmi, perché come uomo faccio schifo. Il carattere bisogna scaldarlo nella forgia e piegarlo al verso buono. Non possiamo cavarcela dicendo “siamo fatti così”, altrimenti io sarei un pluriassassino.
Non è solo la montagna a curare, ma anche la scrittura. Tu hai scritto decine di libri, anche tua figlia Marianna ha iniziato dopo la malattia.
Ci sono due modi per salvarsi dall’incubo delle malattie terribili: fare qualcosa. Marianna ha scoperto la scrittura e “Fiorire tra le rocce” mi ha fatto piangere. Antonin Artaud, grande poeta e drammaturgo eccezionale, che morì in manicomio, disse: nessuno ha mai scritto, dipinto, fatto musica – io aggiungo bevuto e mangiato – se non per uscire dall’inferno. Per Marianna la scrittura è stata salvezza. Lei a differenza di Melissa ha ancora paura e questo la annienta (il problema di Matteo era benigno invece). Il suo romanzo Le vèinte ha raccontato una montagna non amica, non edulcorata. Konrad diceva: il mare non è mai stato amico dell’uomo, casomai gli ha concesso qualcosa. Anche la montagna non fa scherzi. Marianna ha descritto la cupezza, ma c’è anche speranza. L’ho vista felice, perché ha vinto la sfida con se stessa. Scrivere un libro è come arrampicare, devi arrivare in cima e non sempre ce la fai. Borges disse: forse era meglio che mi fossi limitato a leggere, perché scrivere è terribilmente difficile. Sono armi a triplo taglio, basta una svista e naufraghi.
Ti sei sentito in colpa per la malattia dei tuoi figli?
Per la malattie no, per altre cose sì, perché a volte li ho educati con burberità. Come genitore ho dato un 85% di dolcezza, gli ho insegnato a camminare, a scalare, a scolpire. Ma con la malattia non di uno, ma di tre figli, ti si apre l’inferno e tu sei sul bordo. Però questa esperienza mi ha molto aiutato a scrollarmi di dosso sdegnosamente, e vergognandomene, tutte le vanità, la voglia di successo, le ambizioni di premi letterari che avevo prima, come un cane si scrolla via l’acqua. Lo giuro su quanto ho di più caro: se dovessero annunciarmi che ho vinto il Nobel non esco nemmeno di casa. Ecco come sono cambiato: avrei preferito evitare quest’esperienza e restare un burbero cretino, ma forse ora sono diventato quello che sono in natura e che ho dovuto modificare.
Vale a dire?
Un uomo umile, normale. La vita non concede nulla, devi sgomitare, arrancare con le unghie sul pendio ghiacciato, tirare coi denti questa corda della vita. Rinuncio a quelli che altri mi dicono treni d’oro, non mi interessa più, faccio qualche presentazione perché ogni tanto ho bisogno di incontrare la gente. Scrivo un libro, se vende bene, altrimenti amen. Mi dispiacerà per la casa editrice.
Oggi la visibilità però è irrinunciabile, nel bene e nel male. Nell’alpinismo cosa significa?
Vogliamo parlare di alpinismo? Leggiamo il libro di Augusto Golin, La montagna in tribunale. Altro che alpinisti puri, poi ci saranno anche eccezioni. Non è un problema dell’alpinismo, ma del mondo in cui agisce l’uomo. Se vai a farti una scalata perché ti porti una troupe? Confessa che vuoi visibilità, non c’entra l’ideale. Allora ti assolvo, l’ho fatto anche io. Una volta volevo scrivere un libro su “20 bugie alpinistiche”: avevo contattato segretamente alcuni, in carriera anche da 60 anni, chiedendo se avessero mai barato. Il primo capitolo era mio: spacciai l’invernale solitaria al Col Nudo sullo Spigolo Gallo in libera, invece mi tirai su tutti i chiodi. Avrei potuto non dirlo. Nessuno confessò, eppure due avevano barato con me, quindi ero certo: il progetto fallì perché nessuno voleva essere il primo dei bugiardi.
È tutto così negativo?
Io lo vedo negativo. Bisogna stare attenti agli sgambetti, è difficile trovare il vero amico. Il problema non esiste quando riesci a non aver più bisogno degli amici o dell’amore, perché il bisogno crea dipendenza: dagli eroinomani d’affetto agli eroinomani del vino, come me.
Per i tuoi figli non provi amore?
È diverso, i figli non ti tradiscono, non sono amici o compagni di cordata. Ti puoi imbattere nell’amore, ma amare vuol dire voler bene ai lati negativi della persona, significa silenzio, accettazione, perdono, pazienza, generosità, accettazione assoluta. Altrimenti è senso del possesso e gelosia.
Come le vedi le battaglie ecologiste di oggi?
Hanno un senso, ma non è bloccando la strada di chi va a lavorare che le risolvi. Sono doverose, ma sono già perse perché comanda il potere politico. Chi si mette contro certi sfruttamenti indegni della montagna? E a farne le spese sono le piccole comunità dove con un impianto di collegamento potresti risolvere la miseria della montagna, come in Comelico. Chi non ha voluto farlo? Un ambientalista che ha il culo a Venezia! A Erto abbiamo lottato 60 anni dopo il Vajont per ridare vita al paese e ora moriamo perché non abbiamo più un bar per offrire un caffè a un turista che passa. Ce n’è solo uno. Serve l’anarchia imprenditoriale: non possiamo aspettare 10 anni di scartoffie, ma bisogna anche essere responsabili delle proprie azioni, senza dare sempre colpa al sindaco. E poi serve qualcuno che controlli.
Come si trova l’equilibrio fra spopolamento e sostenibilità?
Serve una mappa dei bisogni. A Cortina o Corvara non c’è bisogno di nuovi impianti, eppure li fanno lì perché sono piene di soldi. Jean Giono diceva che il vero bisogno sta nelle piccole valli, dove ci si può chiamare da una costa all’altra (non avevano i cellulari, ai suoi tempi). È questo che non si fa. Vuoi un’infamia? Un campo di tennis a Erto, che significa “ripido, scosceso”. Se ti scappa una pallina finisce nel Vajont. Bisogna chiedere ai montanari come investire i soldi! Ma la gente non può decidere.
Sei un montanaro, se decidessi tu cosa faresti?
Chiederei di “adoperare la natura con educazione e rispetto”, come mi disse Mario Rigoni Stern. Qui abbiamo acqua, rocce e boschi. Nel ’76 ho fatto la palestra di roccia più famosa d’Europa, a spese mie. Oggi è in stato di abbandono. Ad Arco di Trento hanno creato un’industria con la palestra di roccia, c’è un negozio di sport ogni dieci metri. Da noi sarebbe servito un bar per gli alpinisti, un centro di ritrovo, una segheria (con tutto il legname che abbiamo), un mulino per fare le farine, un percorso didattico nei boschi per i bambini, una scuola d’arte per salvare l’artigianato, una cooperativa per vendere i prodotti, una latteria per creare un’eccellenza del formaggio. L’ho sempre detto anche in tv.
Lascerai Cartabianca?
Non lascio Cartabianca, perché porto la voce di chi non ce l’ha. La mia è una voce senza riscontro, ma se non la alziamo si perde. Che i politici sappiano che noi sappiamo.