Manrico Dell'agnola e il concatenamento Philipp-Flamm e Solleder-Lettenbauer in un giorno

Manrico Dell’Agnola racconta l’emozione e la sfida del concatenamento Philipp-Flamm e Solleder-Lettembauer in un giorno.

Rileggo dopo 35 anni questo racconto e ancora mi emoziono, per me l’arrampicata è stata sempre un momento felice, e l’ho sempre concepita come tale. Allora mi contestarono quando dicevo che mi divertivo, ma come ci si può divertire facendo certe cose? Eppure è così, lo dicevo allora e lo riconfermo ora… ma era alpinismo? Non so nemmeno io come definirlo, l’alpinismo allora è un fatto mentale? Ogn’uno possiede e vive il proprio? Difficile dirlo, se la distinzione fra alpinismo e arrampicata sia dettata dalla montagna o semplicemente dal modo con la quale noi affrontiamo la montagna. Dilemma. Comunque sono state salite che mi hanno fatto vivere, e non morire, salite nelle quali mi sono espresso per quello che sapevo fare e che, oltretutto, hanno fatto nascere una solida amicizia che tuttora esiste con Alcide Prati, compagno di cordata speciale. Come si dice, salite di montagne ma sempre e semplicemente storie di uomini. Nessuna tristezza e nessun rimpianto ma solo la soddisfazione di esserci stato.

 

Philipp-Flamm e Solleder-Lettembauer in un giorno

È da un po’ di tempo che in testa abbiamo questa idea, nata l’anno prima, durante i riservati festeggiamenti per il nostro primo concatenamento: Carlesso e Cassin sulla Torre Trieste.

Quel giorno ad un certo punto, con movimenti non degni della sua proverbiale sicurezza, Alcide Prati saltò sul tavolo e proclamò che l’anno dopo avremmo salito in giornata sia il diedro Philipp-Flamm che la Solleder-Lettembauer alla stessa parete. L’affermazione, più che stupore, destò tra i presenti ilarità, infatti detta così e in un’atmosfera ovattata dai vapori dell’alcol appariva senz’altro più come una battuta che come l’anteprima di qualche cosa di concreto.

Per alcuni giorni ce ne dimenticammo, ma poi io feci dei rapidi, quanto empirici, conti. Dunque, “se la via Philipp si sale in quattro o cinque ore e se ne servono circa altrettante per la vicina via Solleder in tutto d’arrampicata sarebbero meno di 10 ore”

Il primo avvicinamento si fa al buio e quindi non porta via ore di luce, il secondo con la discesa dalla cima richiede circa tre ore. Sono così tredici ore totali e rimarrebbe addirittura il tempo per uno spuntino, un riposino e l’ultima discesa fino al Rifugio Coldai. Che il fisico dovesse resistere a tutto questo non lo considerai nemmeno. Tutto sommato non sbagliai di molto. 

Il pomeriggio del 24 agosto del 1990 Alcide è già tranquillo tra chiacchiere e sole al rifugio Tissi; io, preso da imprese ancora più piacevoli e rischiose, perdo quasi l’intero pomeriggio girovagando per il Monfenera.

È notte fonda quando sbucando sudato e stanco dalla selva di mughi intravedo finalmente, attraverso gli occhiali appannati, le luci del rifugio. Sono le 11 e mi stanno aspettando. C’è anche Soro con degli amici; due chiacchiere e qualche birra, nonostante l’ora e i progetti per il giorno dopo non me la leva nessuno. Poi tutti “in branda“; la sveglia è fissata per le quattro e mezza. All’indomani la giornata pare perfetta, il cielo è stellato,  non fa molto freddo ma le previsioni sono il massimo.

Due ragazzi fanno colazione con noi, loro andranno sulla Solleder. Il Nani ci ha preparato di tutto: the e caffè caldissimi, fette di pane con burro, marmellata e miele.  Noi non ci ingozziamo come al solito, perché tra poche ore dovremmo essere già pronti per bere il secondo caffè al Torrani, quel meraviglioso rifugio posto sul versante opposto della montagna, dieci minuti sotto la cima.

Abbiamo deciso di iniziare dalla via Philipp perché tecnicamente più difficile.

 

La Philipp-Flamm

Alle cinque e mezza attacchiamo i primi facili camini aiutati dalla luce delle pile frontali; non fa molto freddo, ma in ogni caso la roccia qui a nord è gelida e ci costringe a varie fermate per permettere alle mani di riaversi e di riacquistare sensibilità. Tuttavia procediamo ugualmente spediti e senza intoppi, ci sentiamo in perfetta forma ed allenati sia fisicamente che moralmente.

Io ho sempre quella insopportabile sensazione di non dare il massimo e di non seguire quelle regole fondamentali che dovrebbero contraddistinguere un vero atleta, tipo: alimentarsi in un certo modo, condurre una vita regolata, bere molto (non vino s’intende). Sono convinto che se sono riuscito a fare certe cose qualcun altro potrebbe fare molto di più allenandosi sistematicamente e conducendo una vera vita sana.

Comunque, piangendoci sopra e prendendoci allegramente in giro, continuiamo a salire ed in breve siamo sotto il diedro giallo, il tratto più caratteristico della via che superiamo con tre lunghi tiri di corda, tutto ci sembra facile e sbrigativo. Dei chiodi in via ne uso una piccola parte e mi sento supersicuro.

L’uscita dal diedro e le successive placche sono in condizioni perfette, neanche paragonabili a quando sono salito slegato, di conseguenza avanziamo spediti sicuri e sempre in libera. Nonostante qualche sasso che ci sibila vicino, ma che abbiamo la convinzione e presunzione di saper schivare, saliamo velocemente Anche i caminoni sommitali sono perfetti e passare per quel gran buco ci diverte. Alle dieci e senza storia siamo in cima, anzi, su quel tratto di cresta piana alla quale è stato dato un nome, Punta Tissi, e che decreta la fine di questa leggendaria salita.

Abbiamo impiegato quattro ore e mezza per la prima via; l’intermedio va bene.

 

La Solleder-Lettembauer

A questo punto penso sia inutile salire in cima per dopo scendere al Torrani così, pur non avendolo mai fatto, improvvisiamo una traversata per cenge che per fortuna ci porta in breve e senza troppa fatica al rifugio dove, con perfetta sincronia, (avvisato dal gestore del Tissi) ci aspetta un favoloso minestrone caldo preparatoci per noi. Telefono al Nani del Tissi che per tutta la salita ci ha seguiti con il suo “mega telescopio bianco“ croce e delizia del suo occhio arrossato, poi giù di corsa per la via normale.

Sono stanco, fa caldo e qualche attimo di sconforto m’assale, mi rendo conto che il vero tratto chiave della faccenda è proprio questa discesa ed il lungo giro per ritornare sotto la grande parete.

In meno di due ore siamo alla forcelletta dalla quale si vede di scorcio il versante nord. Alle nostre spalle orde di turisti rumorosi, alcuni mezzi nudi che urlano immergendosi nelle gelide acque del laghetto di Coldai; davanti a noi, ancora in ombra, tetra e severa l’enorme e scorbutica “Parete delle Pareti”.

La Solleder sale proprio al centro dove la muraglia ha il massimo sviluppo, circa milleduecento metri. Mentre la guardo la prego intimanente di non scaricarci niente addosso soprattutto mentre saliamo slegati il primo sperone adagiato che sta proprio sotto più di un chilometro di camini e canali dall’apparenza friabili e franosi di tipica roccia Dolomitica.

Superiamo di corsa questo insidioso tratto e ci rannicchiamo nella rientranza protetta, sotto la prima fessura gialla. Dalla cima di Terranova giungono rumori di scrosci d’acqua e di piccole frane, ma per fortuna sopra di noi tutto tace. Beviamo quasi un litro a testa di liquido energetico poi mi lego e parto. Come sempre il primo tratto è bagnato e freddo e sulla destra enormi strapiombi neri sono impregnati d’acqua.

La via invece, a parte il primissimo tratto, è perfetta e d’altronde la scelta del periodo e delle condizioni ottimali è stata oculata e precisa.

Mentre sono incastrato nel camino del secondo tiro grossi massi sibilano e alcuni di questi vanno a frantumassi a pochi metri da me; in un attimo divento finissimo e d’istinto mi butto all’interno del camino, le gambe mi tremano, rimango immobile per qualche momento. Alcide spaventato mi chiede se vada tutto bene, tutto pare di nuovo tranquillo; la montagna tace. Timidamente tiro fuori la testa e poi su più veloce possibile sino ad una sosta protetta da una piccola volta strapiombante. 

A parte questo spavento ed uno sbaglio nell’individuare il traverso che porta dal primo sistema di canali alla zona facile che conduce al Cristallo, errore che ci costerà la perdita di quasi un ora, tutto il resto dell’arrampicata procede lentamente, ma senza intoppi. Ormai ci sentiamo la vittoria in tasca anche se, finché non siamo in cima, forse solo per scaramanzia, non ci voglio credere.

A circa duecento metri dalla cima superiamo la cordata che aveva attaccato la mattina e scherzosamente dico loro che come mira sono proprio scarsi; tanti colpi ma tutti a vuoto, anche se le prime bombe ci hanno realmente spaventato. Rallentiamo un attimo per fare due chiacchiere: che non si dica in giro che siamo scorbutici!

Devo confessare di essere abbastanza stanco, e questa è anche una buona scusa per sederci un attimo, scambiarci qualche impressione e per slegarci. 

Con la corda in spalla continuiamo la salita; ora la parete è inondata dal sole, ma non fa caldo. Alcide tende ad andare a sinistra mentre io scelgo un tracciato più diretto. Lui, certo ormai della cima, è diventato lentissimo mentre io pur con la sua stessa certezza accelero istintivamente.

Sono le diciannove del 25 agosto quando finalmente ci abbracciamo in cima, tra cornacchie e qualche turista ritardatario; a uno di questi chiediamo di farci una foto.

Nonostante l’ora rimaniamo ancora un po’ lassù; molte altre volte sono stato in cima alla Civetta ma questa volta è diverso. Non parliamo perché non c’è niente da dire, tutto sarebbe in più e scontato. Comincio ad avvolgere la corda ed a riordinare il pochissimo materiale, Alcide segue il mio esempio; poi con la debole luce della sera iniziamo la discesa con la massima calma ed attenzione un saluto veloce al gestore del Torrani e dopo qualche ora siamo giù. Renato è sulla porta. È notte fonda quando per l’ennesima volta varchiamo l’entrata di servizio al rifugio Coldai.

Quello che due mezzi ubriachi avevano immaginato una sera di festa in rifugio è divenuto realtà.

 

Tratto dal libro “UOMINI FUORI POSTO” di Manrico Dell’Agnola