Mallory

100 anni fa l'alpinista inglese scomparve sull'Everest insieme a Andrew Irvine. Uno dei grandi misteri irrisolti dell'alpinismo.

Mallory e norton durante la scalata © Howard Somervell

Un grande strato di argilloscisti taglia l’Everest in direzione settentrionale, dove va a formare le ardesie stranamente inclinate sotto i gradini rocciosi della cresta nord. È lì che nel 1999 Conrad Anker recupera il corpo straziato di George L. Mallory, sparito nella nebbia con il compagno Andrew Irvine l’8 giugno 1924 e mai più ritrovato, accendendo uno dei misteri più grandi e irrisolti della storia dell’alpinismo. Sono arrivati in vetta? Non ci sono arrivati? Nel primo caso avrebbero compiuto uno dei gesti più sbalorditivi della vicenda umana.

Come la maggior parte degli storici e degli alpinisti del Novecento, Reinhold Messner ha concluso che non ce l’abbiano fatta: “Ammettere la sconfitta è difficile da sopportare soprattutto quando l’eroe muore. Questo vale ancora oggi. In quel periodo, nel 1924, si parlò molto poco del fallimento di Mallory sulla via del ritorno. Se almeno avesse lasciato dietro di sé qualche traccia come Robert Falcon Scott al Polo Sud! Quando Mallory precipitò sotto la cresta nordovest non c’era nessuno che più tardi avrebbe potuto testimoniare”. Di George L. Mallory, il colto ed eccentrico alpinista inglese innamorato dell’Everest quando la sua scalata era un’impresa per pazzi o per sognatori, si è parlato sempre di più con il passare degli anni e l’accrescersi del mito, finché Hillary e Tenzing hanno salito la montagna più alta misurandosi a ogni passo con il mistero di chi (forse) li aveva preceduti, e poi fino alla primavera del 1999, quando la spedizione americana di Anker ha ritrovato il corpo di Mallory generando uno scoop giornalistico di dubbio gusto e facendo rimbalzare le macabre immagini in tutto il mondo: la seconda morte di George! Così sono stati versati altri fiumi di inchiostro sull’eroe e tutti avuto modo di dire la loro: che era stato su, che non ci era stato; che era caduto in salita, in discesa, di notte, per la tempesta o per causa dello sfinimento.

Di certo sappiamo che prima di partire scrisse: “Ricordo come la mia anima sorvolasse sui diversi preparativi e si dicesse, proprio come Dio dopo la creazione, che tutto andava bene. Il pensiero di ciò che sarebbe potuto succedere nei due giorni successivi balzò, come in un sogno, verso l’alto, e i miei desideri volarono di nuovo: immagini piene di speranza. La mia meta era straordinariamente chiara: il punto più alto della terra!” Sappiamo anche che non fu il primo a spingersi nella zona della morte, perché quattro giorni prima Edward Norton e Howard Somervell compirono un tentativo ignorando il filo della cresta nord, interrotta da due salti verticali, e salendo in diagonale più in basso. Somervell era esausto e così Norton proseguì da solo, raggiungendo circa i 8570 metri. Una quota straordinaria.

L’8 giugno tocca a Mallory e Irvine, ad avventurarsi sulla luna. Si ipotizza che partano in ritardo per dei problemi ai respiratori. Noell Odell li vede salire, superare le barre rocciose e raggiungere la piramide sommitale prima di sparire nella bufera. Due giorni dopo Odell torna al campo V con due sherpa e prosegue fino al VI dove trova la tenda e i sacchi a pelo dei due alpinisti, segno che non hanno fatto ritorno. George e Andrew sono morti di sicuro. Più tardi sir Francis Younghusband, promotore delle prime spedizioni all’Everest, scrive l’epitaffio funebre: Delle due alternative (tornare sconfitto per la terza volta, o morire), quest’ultima era per Mallory la più facile. La tortura della prima possibilità sarebbe stata maggiore di quanto egli, come uomo, come alpinista e come artista, avrebbe potuto sopportare” 

Poco importa, a questo punto, che le ricerche degli storici dimostrino con una certa chiarezza che Mallory non è stato in cima. Uomo di grande volontà ma rocciatore modesto, avrebbe dovuto scalare una parete oltre il quinto grado quando neanche sulle Alpi si superavano certe difficoltà. Ciò che conta, nel bene e nel male, è che il ragazzo di Mobberley abbia creduto in “ciò che non era mai stato raggiunto, nell’eterno irraggiungibile”