Le vie invisibili. Intervista a Franco Michieli

Orientarsi senza l'aiuto di gps, di mappe, di orologi, disposti a perdersi per ritrovarsi meno soli in compagnia della natura. L'ultimo libro dell'esploratore e geografo autore di impegnative traversate nelle Alpi e in Norvegia racconta di come, accettando la propria piccolezza, il mondo possa tornare a essere grande.

Estremo. Non può che definirsi così l’ultimo libro di Franco Michieli, «Le vie invisibili» (pp. 282, 18 euro, Ponte alle Grazie 2024). Ma estremo in quale direzione? Questa parola infatti rimanda solitamente al tentativo di andare fuori, oltre i propri limiti. Eppure non ci sono record da battere in queste pagine. L'idea di viaggiare senza orologio, gps o mappe geografiche è infatti un ritorno alla dimensione più intima e naturale dell’uomo, in cui orientarsi significa lasciarsi guidare dalla direzione del vento, dalla variazione di pendenza del terreno, dalla posizione del sole nel cielo. Leggere come ciò sia stato possibile significa vincere parecchie resistenze mentali, e in prima battuta risulta paradossalmente «innaturale».

Dopo avere compiuto importanti traversate, fra cui quella delle Alpi da Ventimiglia a Trieste nel 1981 a soli 19 anni (2000 km in 81 giorni), e l’integrale della Norvegia «per il lungo», da sud a nord, nel 1985 (4000 km in 150 giorni), nel 1998 Michieli si lascia infatti andare a un’evoluzione naturale del suo modo di viaggiare, favorita dall’esperienza compiuta con Renato Da Pozzo, atleta dell’estremo, per un test sugli effetti della privazione del sonno sul corpo umano. Compie così la traversata estiva del Sapmi (nome corretto della Lapponia) settentrionale norvegese da est a ovest, intorno al 70° parallelo, con Andrea Matteotti: 600 km in 23 giorni. Le foto si possono vedere sul suo sito, inquadrando il QR-Code in ultima pagina.

Tutti quei viaggi sono diventati libri (come «L’abbraccio selvatico delle Alpi», coedito con il CAI nel 2020), conferenze e seminari formativi in giro per l’Italia. Perfino un film, dall'emblematico titolo «La via invisibile», che nel 2004 vide il debutto alla regia. Michieli, milanese di nascita (nel 1962) e camuno d’adozione, scrittore, esploratore delle regioni nordiche con una puntata nelle Ande, geografo, garante internazionale di Mountain Wilderness, socio CAI della Sezione di Agordo dal 1968 e formatosi come alpinista alla Scuola Parravicini del CAI Milano, non ha smesso di viaggiare, anche se ora le ginocchia gli suggeriscono di optare per traversate con sci e slitta, più clementi con le cartilagini. A marzo è tornato in Norvegia, dove a giugno accompagnerà un gruppo per la Compagnia dei Cammini, con cui collabora stabilmente. Un viaggio senza tappe organizzate, nel suo stile, ma godendo di quel diritto che con parola norvegese – ce lo insegna lui – si chiama «Allemannsretten»: la libertà di andare in natura ovunque, purché in maniera responsabile e consapevole.

Michieli presenta «Le vie invisibili» l'11 maggio nella Sala della Montagna al Salone del Libro di Torino.

Franco Michieli durante un percorso invernale a vista in Norvegia nel 2024. Foto Archivio F. Michieli.

 

Franco Michieli, perché hai sentito il bisogno di cercare vie invisibili?

«L’idea delle vie invisibili non nasce a tavolino, non è una scelta razionale, né una sfida con se stessi. È stata la natura a indicarmi questa strada, con la sua ricchezza soprattutto relazionale che nasce quando si è immersi in un mondo molto più grande di noi, da cui però veniamo e che dobbiamo ritornare a saper leggere. Chi vive simili esperienze con me riconosce questo valore speciale, sperimentando un ritorno, un ritrovamento. Per me si è trattato di un’ispirazione profonda legata alle mie esperienze d’infanzia, un desiderio di intimità con la natura molto spontaneo che ho sentito fin da bambino, quando ho potuto passare parecchio tempo in montagna senza telefono, corrente elettrica, automobili. Era normale per me stare con la mia famiglia in una zona d’alpeggio delle Dolomiti, dove era nata mia nonna, certo vivendo in una casa, ma senza il bisogno delle comodità e delle sicurezze del mondo civilizzato. Ho trovato invece anormale lo sviluppo successivo, quando l’umanità è stata catturata in un’enorme rete che ci porta fuori dalla relazione diretta col mondo reale. Per me, che sono nato prima dell’avvento di questa tecnologia, quella rete costituisce una perdita esperienziale immensa.

Quali sono gli ostacoli mentali più difficili da superare?

Vivere completamente isolati nell’impossibilità di connettersi è l’ostacolo più grande, che non tutti riescono a superare. Sono le nuove colonne d’Ercole, e sono invisibili anche quelle. Non è facile per molti lasciare a casa quello che di fatto hanno considerato il dio a cui chiedere ogni risposta, scollegandosi dalla rete. Ricordo che negli anni ’90 ci si interrogava di quanto l’avvento del gps e dei primi cellulari avrebbe influenzato l’alpinismo, qualcuno era contrario, qualcun altro sosteneva che bisognava lasciare libertà di scelta, ma è durata poco, perché la sicurezza è diventata un nuovo dogma. All’inizio dei Duemila non avere con sé il telefono era già diventato un tabù, e oggi è ancora più forte, quasi invincibile per chi si è abituato. Per me eliminare gli strumenti tradizionali di orientamento è stato anche un modo per reagire al dilagare del gps. Non mi capacitavo del perché grandi alpinisti e uomini di avventura che avevano sempre professato di andare by fair means  togliessero la parte interpretativa dell'ambiente: perché il satellite è leale e l'ossigeno no? Comunque non giudico chi oggi ne fa uso: appartiene a generazioni più giovani della mia, compie viaggi diversi dal mio. Sono esperienze che non si possono paragonare.

La tecnologia è solo un male?

La tecnologia è connaturata in noi Sapiens, l'abbiamo ereditata da chi ci precedeva, non possiamo vivere senza, quindi dobbiamo per forza considerarla anche positiva. Dobbiamo però capire quale ci possa aiutare a vivere restando in equilibrio con l'ecosistema della Terra, e quale invece ci dia un potere eccessivo. Per me il più grande rischio della tecnologia di oggi, con l’avvento dell’intelligenza artificiale, è quello di perdere il rapporto corporeo con la realtà e dunque di creare degli inetti incapaci di risolvere un qualunque problema reale.

Cosa significa orientarsi per te?

Significa entrare in relazione con la natura percependo ciò che accade. Il vento ci aiuta se viene brutto tempo e sale la nebbia. La visione anche saltuaria del sole è fondamentale per avere una cognizione del passare del tempo. Orientarsi non vuole dire tanto tenere la rotta dritta verso la meta, perché è bellissimo anche perdersi e ritrovarsi, procedendo a zigzag. Quello che conta nell’orientarsi è che si è positivamente costretti a relazionarsi agli eventi della natura, dirigendo l’attenzione a ciò che avviene fuori da noi, anziché dentro di noi. È uno stimolo relazionale fortissimo che viene meno seguendo il gps.

È questo che insegni ai seminari?

Insegno a lasciarsi guidare dallo stupore. Non ci aspettiamo più stimoli così forti dal mondo esterno. Muoversi in questo modo significa provare una grande meraviglia e riscoprirsi non più come individui soli, ma in compagnia della natura, così anche perdersi cambia di significato. Si diventa più felici. Stare in natura è un grande antidoto contro la solitudine del nostro tempo, in cui siamo tutti connessi ma più soli, con poche amicizie reali con cui condividere momenti veri.

Franco Michieli durante la traversata dell'Islanda, 1991. Foto Archivio F. Michieli.

Tornare da certi viaggi non è davvero possibile, scrivi.

Imparare a tornare è stato il lavoro più difficile. Soprattutto dopo le prime traversate, che sono state anche le più lunghe: a 19 anni, subito dopo l’orale di maturità, sono partito per 5 mesi nelle Alpi, poi ho passato 150 giorni in Norvegia… Il contrasto più forte lo vivevo dentro me stesso: tanto ero attivo e lanciato verso nuove esperienze durante il viaggio, quanto intorpidito al rientro. Abitavo a Milano, all’epoca, nella metropoli: c’era qualcosa che mi spegneva. Vivere immersi nella natura significa vivere secondo la logica della natura, che non agisce mai in controsenso. Mi stupiva al ritorno invece proprio l’assurdità delle auto imposizioni umane, come la burocrazia e i vari obblighi quotidiani, cose che si fanno perché le fanno tutti. 

A un certo punto ti sei sposato, sei andato a vivere in Valcamonica e hai avuto figli. Come ti ha cambiato la famiglia?

I miei viaggi si sono fatti più brevi ed ero più contento di rincasare, anche perché io non ho mai creduto di tornare alla vita selvaggia, ma piuttosto di modificare la vita di tutti i giorni sulla base delle esperienze che facevo. Ma soprattutto non vivevo più lo sconforto che da giovane mi derivava pensando che fosse impossibile comunicare il mio rapporto rispettoso e sincero con la natura e fotografando i luoghi in cui andavo, che era il mio desiderio fin da bambino. Le mie conferenze in tutta Italia lasciavano la gente così stupita, da pensare che quello che facevo fosse una cosa eccezionale, mentre il mio obiettivo era al contrario di coinvolgere tutti. Questo mi faceva soffrire. A 20 anni si vive di ideali e il mondo appare solo in bianco e nero: oggi sono più sereno perché ho capito che invece è importante condividere le mie esperienze, anche se non è come viverle, perché sono comunque di ispirazione. 

Qual è l’insegnamento più importante che hai ricevuto dalla natura?

Il sentimento di fiducia negli eventi, che ho maturato con l’esperienza, aspettando per giorni di trovare soluzioni che sembravano impossibili e che però arrivavano sempre, se non si aveva fretta di andare. Quella fiducia l’ho trasferita alle persone e l’ho insegnata ai miei figli. Oggi sono meno intransigente e selettivo, perché penso che ciò che accade nella natura possa accadere anche nella società umana, anche se è più difficile. Ho imparato a sospendere il giudizio e questo evita di rompere un cammino naturale che porta più verso il bene che verso il male.

Dopo aver capito che potevi orientarti senza orologio, mappe e gps, com’è cambiata la tua visione dell’uomo?

Penso che se accettiamo la nostra piccolezza il mondo torna a essere grande, grandissimo e capace di accogliere infinite esperienze, ogni volta diverse. Dobbiamo ritrovare la possibilità di avere orizzonti infiniti.

Franco Michieli durante la traversata a vista della Terra dei Sami (Finlandia e Norvegia) nel 2013. Foto Archivio F. Michieli.