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Chi è Filip Babicz? Lui ama definirsi un atleta, il mondo lo conosce per le sue imprese in velocità: la solitaria in 17 ore lungo l’integralissima di Peutérey sul Monte Bianco, dove un mese dopo ha salito in 1 ora e 30 minuti la Cresta Sud dell’Aiguille Noir (2020). Lo Spigolo Nord del Badile in 42 minuti e 52 secondi (2021). La prima solitaria della parete inglese dall’inquietante nome di “Appointment with Death”, “Appuntamento con la morte” e la salita solitaria in 49 minuti del Grand Capucin (2022). Ultima, il concatenamento in solitaria delle quattro creste del Cervino in 7 ore, 43 minuti e 45 secondi, lo scorso settembre 2024.
È uscito ieri il suo primo libro, Oltre l’immaginabile. Storie di un alpinista alla ricerca della perfezione (pp. 272, 28 euro, Rizzoli illustrati 2024). Al momento è già prevista la traduzione in polacco (“rigorosamente fatta da me”, afferma con decisione), poi chissà.
È uno abituato a fissare un obiettivo e poi a lavorare fino a realizzarlo e con il libro è andata così: il risultato è un volume esteticamente bello, ricco di fotografie mozzafiato, con un giusto equilibrio fra la vocazione alla sintesi e la necessità di raccontare perché mai uno dovrebbe correre slegato su creste vertiginose.
Polacco cresciuto a Zakopane, trapiantato a Courmayeur una ventina di anni fa, leggendo il libro si capisce perché parla così bene l’italiano e anche perché il racconto delle singole imprese, dove un QR-Code riporta al rispettivo video su Youtube, si apre spesso citando un film: ha lavorato come proiezionista al cinema della cittadina ai piedi del Monte Bianco, dove col tempo ha scoperto la sua vera vocazione in montagna, che non si esauriva nelle gare di arrampicata sportiva, di cui era comunque un campione. È stato un momento duro, quello, ma a rivederlo oggi è stato un passaggio necessario.
Solitario per natura, oltre che in parete, Babicz (che si pronuncia “Babic” con la c dolce), non disdegna una birra con gli amici, anche se lui beve piuttosto succo d’ananas. Tanti sono guide alpine di Courmayeur, tanti lo hanno aiutato, scalando con lui, trovandogli una casa e un lavoro, quando aveva bisogno di tutto. Fra di loro un posto speciale occupa Denis Trento, scomparso a maggio 2024, cui in giugno ha dedicato Persefone Extension, una delle più difficili vie di drytooling al mondo su appigli naturali, in una grotta a La Thuile di nome Gran Borna.
Di questo si parla molto, mentre non c’è il record al Cervino, arrivato dopo la chiusura delle bozze: il libro non nasce per celebrare un punto di arrivo. Nel futuro di Babicz ci sono infatti moltissimi progetti, sempre troppi scherza, ma tre in particolare sono già nel mirino: basta che si aggiusti il dito rotto pochi giorni fa durante una banale corsa e vedremo cose che noi umani…
La copertina del libro.Filip Babicz, cosa provi ripensando a 20 anni fa, ai sacrifici che hai fatto quando ti sei fermato a Courmayeur con un sogno in testa e poco altro?
Ci tengo a dire che tutto quello che è scritto è vero, non ci sono scorciatoie per rendere la mia storia più logica, quando invece è stata complicata. A Courmayeur ero arrivato nel 1999 per una gara di campionato mondiale giovanile di arrampicata, all’epoca ero molto concentrato sulle pareti artificiali, ma ricordo quanto fui impressionato allora al vedere il Dente del Gigante, con la sua forma inconfondibile. E il muro della palestra di Dolonne, magari avessimo avuto in Polonia una struttura simile. Oggi ce ne sono molte e di migliori, ma all’epoca era una bomba! Però io non volevo stare in Italia, parlavo francese, volevo andare in Francia. Ma quando sono tornato a Courmayeur nel 2003 l’ho visto così abbandonato che mi sono proposto per sistemarlo.
Dentro una palestra con il Monte Bianco fuori… sembra un’eresia! Cos’è cambiato oggi?
Quando fai gare di arrampicata la montagna non conta per niente in verità! Un atleta di Coppa del Mondo si allena per le gare, avere il Monte Bianco sopra la testa è relativo. Io all’epoca, nel 2003, avevo una grande passione per la montagna, ma fino al 2015 ci sono andato poco. Mi piaceva da un punto di vista paesaggistico, ma con gli allenamenti non era facile andarci. È a Courmayeur che la montagna ha acquisito per me il suo senso, è lì che ho capito il mio potenziale e oggi per me il Monte Bianco è il centro del mondo, mentre prima lo era la palestra di Dolonne. La differenza sta in quei pochi chilometri di distanza fra i due.
Lo storico arrivo a Courmayeur in autostop, il 5 luglio 2003. Foto Iza Gronowska.Un bel cambiamento…
Con cui però ho chiuso un cerchio. Ho iniziato a fare arrampicata sportiva a 14 anni perché mi consentiva di collegare due grandi passioni: la montagna e lo sport. L’arrampicata sportiva è stata il mio mondo per 18 anni, fino al 2015, quando sono tornato alle origini, alla mia prima passione, cioè la montagna.
Passione che arriva grazie a tuo papà, guida dei Monti Tatra, dove sono passati tutti i grandi alpinisti polacchi, alla cui generazione lui appartiene anagraficamente.
Mio papà è un grande appassionato di alpinismo, abbiamo un’intera libreria a casa con le storie degli alpinisti. Una volta, nel 1991, mi ha portato a Katowice (la città di Kukuczka, NdR) dove si teneva un importante festival di film di montagna, come il Trento Film Festival in Italia, a cui desideravo andare. Non avevo ancora dieci anni, ma ricordo che ero contentissimo di poter incontrare alcuni dei miei idoli, come Wanda Rutkiewicz, o Andrzej Zawada. Conservo ancora il loro autografo in un quaderno, dove ci sono anche le firme di altre persone importanti che ho conosciuto.
Tu sei nato nel 1982, prima della caduta del muro di Berlino, cosa ricordi della tua infanzia?
Ricordo purtroppo il Comunismo, che nella testa degli italiani ha una connotazione più positiva rispetto a come l’ho vissuto io. Come sistema politico è una buona idea in teoria, ma nella pratica non tanto: non avevamo niente, ricordo le code al benzinaio, la carne razionata, una zia che viveva in Germania Ovest ci mandava due arance e due banane per Natale, perché noi non avevamo nulla.
Con tuo padre sei andato sul Monte Bianco per il bicentenario dell’alpinismo polacco, nel 2018. Quanto è diverso dal suo il tuo modo di andare in montagna?
Siamo riusciti a salire in vetta esattamente il 4 agosto, 200 anni dopo il primo polacco, è stato incredibile: avevamo pianificato tutto, ma non sapevamo che saremmo davvero riusciti a farcela, bastava che ci fosse il maltempo… Salendo sul Bianco mio padre ha realizzato un sogno che coltivava fin da quado aveva 5 anni, nella Polonia degli anni ‘50, quando viaggiare era possibile solo sotto lo stretto controllo della Polizia… è stato pazzesco realizzare quel sogno proprio in quel giorno, è stato come vincere al Superenalotto. Ma io mi sono allontanato totalmente dal suo alpinismo, che era classico, con un approccio molto più romantico, mentre il mio è un alpinismo estremo, concentrato sulle prestazioni sportive, con un’elevata componente di rischio.
Perché scrivere un libro adesso, Filip?
Era un sogno che coltivavo da qualche anno, avevo già scritto qualche articolo, ma un libro intero mi spaventava un po’, non sapevo se ce l’avrei fatta. Volevo che fosse il “mio libro”, non un libro “su di me”. Sono partito con l’idea di raccontare tre argomenti principali in ordine di importanza: al terzo posto la mia vita, al secondo le mie imprese, al primo posto quello che c’è dietro, dentro la mia testa, le mie motivazioni, ciò che muove tutto questo. Non è stato facile per me parlare delle mie emozioni, di ciò che vivo durante le mie imprese. Come dicevo all’inizio, tutto quello che è scritto è vero, non ci sono scorciatoie, non ci sono frasi a effetto solo perché suonavano bene. Cosa provavo mentre scalavo slegato sul Grand Capucin? Non è facile descriverlo a parole. Invece lo trovi lì, nero su bianco. Ho dovuto fare un lavoro profondissimo durato giorni. Ed è il motivo per cui leggere il libro ha senso anche per chi è già venuto ad ascoltarmi a una serata.
A chi vuoi parlare?
A chi è appassionato di montagna ma non la frequenta in modo estremo, e può vederla così da un’altra prospettiva, capendo il senso di quello che faccio e il perché. Come è successo per esempio a Renata Rossi, la prima guida alpina donna in Italia, oggi mia grande amica: non mi ha mai criticato, ma solo conoscendomi mi ha capito.
Salto sullo spigolo Nord del Piz Badile. Foto Marcello Rigamonti.Una foto nel libro ti immortala mentre sei sospeso in un salto sullo spigolo Nord del Badile, durante il record del 2021. Sappiamo che andrà tutto bene, ma fa ugualmente un certo effetto. Come lo descrivi tu quel momento?
È facile parlare di qualcosa quando lo hai già vissuto, quando è andata bene. Ma io l’ho vissuto prima, e quel prima molto spesso era veramente improbabile. Ho dovuto superare dei momenti davvero bui, con tantissimi ostacoli, ma la mia fede era incrollabile, come la mia motivazione ad andare fino in fondo e vincere. Per questo è un libro motivazionale, e può servire a tutti coloro che ne hanno bisogno, non solo alpinisti.
Citi Matrix: “Sei più veloce di così. Non pensare di esserlo, convinciti di esserlo”. Come si fa ad andare “oltre l’immaginabile”?
È una domanda molto difficile. Sicuramente si fa con una preparazione molto meticolosa. Mi viene in mente quando andavo a scuola, ero lo studente più bravo su 600 compagni, i miei voti erano altissimi, ma io mi limitavo a fare i compiti che mi assegnavano: non uno di più, non uno di meno. Era facile così. E anche in montagna faccio così: miro alla perfezione, so che non posso essere perfetto, ma cerco di avvicinarmi il più possibile, non trascuro nessun elemento. Non dico mai “va beh”, faccio tutto quello che serve, tutto.
Non è una questione di mindset, di mentalità?
Quello viene prima di tutto, è alla base, io mi sento un guerriero come Leonida in 300, sul telefono ho mille citazioni di quel film (Leonida fu il re di Sparta protagonista con 300 Spartani della battaglia delle Termopili durante la seconda guerra persiana nel 480 a.C., in cui la Grecia riuscì incredibilmente a respingere le soverchianti forze persiane, NdR), ma non basta. Non basta che io abbia fiducia in me stesso, quello che faccio è troppo grande, troppo difficile. Le mie imprese mi sovrastano, mi sembra impossibile farcela, me la faccio sotto. Quando ho salito “Appointment with Death” ho vissuto per la prima e unica volta una sensazione di sogno lucido. Durante la preparazione ho parlato con me stesso 24 ore al giorno, ripetendomi il mantra “Continua a lavorare, continua a lavorare”. Solo così alla fine sono riuscito a superare l’immaginabile. Uguale al Cervino: mi sembrava impossibile anche se continuavo a prepararmi puntando a farlo in meno di dieci ore, invece ci ho messo solo 7 ore e 43 minuti. Con una caviglia bendata, perché due giorni prima avevo ancora male per una storta di una settimana prima . Quando accendo il cronometro entro in un tunnel spazio-temporale in cui il tempo è rallentato, anche se la gente mi guarda come se fossi un matto quando lo dico. Sembra fantascienza, ma per me è così. È una missione che mi guida.
E questa missione dove ti porta?
A vedere fin dove posso spingermi ad abbassare il tempo, per questo la mia preparazione è così maniacale. Qual è il mio vero limite?
Progetti futuri?
Faccio anche alpinismo invernale, ma i progetti estivi sono la mia essenza. Non posso rivelare quali sono, ma ne ho tre in particolare. Non ne ho ancora compiuto nemmeno uno, saranno i più importanti della mia carriera, i più spinti, più difficili di tutto quello che io abbia mai compiuto. Che è già tanto.
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