Presidi militari nella "città di ghiaccio" in Marmolada © Wikimedia CommonsIl 17 dicembre 1916 un’enorme slavina, valutata in oltre un milione di metri cubi di neve, travolge il villaggio di baracche austriache del Gran Poz sulla Marmolada e fa oltre 300 vittime. Le ultime salme saranno recuperate solo in primavera, con il disgelo. È il lato più allucinante della Guerra Bianca, che fa più vittime per il gelo e le valanghe che per i colpi di cannone. È il lato assurdo di una guerra combattuta tra i due e i tremila metri, dove nessun uomo era mai sopravvissuto all’inverno prima di allora, perché non c’era niente da prendere o da difendere in tempo di pace.
“Ai primi di dicembre di colpo venne la neve, la tremenda neve del 1916 – scrive Mumelter, un testimone –. Giunse il giorno di Santa Lucia con le sue spaventose valanghe. La neve si accumulava ogni giorno, metro su metro, così che tutti i contatti telefonici furono in breve interrotti. Sopra di noi si staccavano blocchi di ghiaccio seppellendo i ricoveri costruiti uno sull’altro, sulla parete di roccia. Un giorno alle quattro udii improvvisamente il rombo di un tuono sopra il mio capo. Fu buio improvviso e provai una sensazione di vertigine, come se tutto cadesse in rovina. Non sapevamo neanche a che profondità fossimo sepolti…”.
Il “venerdì bianco”: quando la guerra si combatté contro la neve
Venerdì 13 dicembre, il “venerdì bianco”, morirono sul fronte alpino diecimila soldati. La Strada delle Dolomiti fu interrotta da un’enorme valanga e per riaprirla gli alpini dovettero scavare una trincea alta più di quindici metri. Dopo tre giorni il maltempo concesse una tregua, ma il 17 riprese a soffiare la tormenta e la neve fece altre centinaia di morti. Gli alpini e i cacciatori temporeggiavano nelle loro tane, dormivano a turni come in battaglia, sussultavano a ogni fruscio di slavina con l’incubo di restare soffocati nel sonno. Chi non si era preparato a resistere a lungo restò presto senza mangiare, altri rimasero senza legna, mancò l’illuminazione, crollarono i cavi delle teleferiche e delle linee telefoniche, i rifugi si ritrovarono isolati e ognuno dovette badare a sé stesso. Certe notti il vento urlava così forte che non si riusciva a mettere fuori la testa dalle baracche, anche se mancava l’aria e la fuliggine dei lumi incrostava la pelle di nero, fin sotto gli strati degli indumenti. Non ci si poteva muovere e non ci si poteva lavare; dopo due settimane di resistenza, i soldati sopravvissuti assomigliavano a maschere africane con gli occhi itterici.