La tormenta di San Giovanni. Intervista a Loris Giuriatti

Si chiude la trilogia del Grappa che restituisce memoria ai soldati che hanno combattuto sulla montagna su entrambi i fronti. La grande storia raccontata ai giovani di oggi in maniera intrigante, come in pochi sanno fare.

Loris Giuriatti ha uno spiccato talento nel raccontare storie, ma la più curiosa da sapere è la sua. Guida ambientale escursionista, formatore, ex prof di storia e oggi preside di una scuola professionale di Bassano del Grappa, se fosse uno dei protagonisti dei suoi romanzi lo chiamerebbero il “padovano del Grappa”, vista la sua provenienza. Con La tempesta di San Giovanni (pp. 222, euro 15,00, Rizzoli 2024) chiude la trilogia iniziata con L’Angelo del Grappa (2020) e Lo chiamavano Alpe Madre (2022), di cui si configura come prequel

Angelo Nardi è protagonista di tutti e tre: come ragazzo che scopre il Grappa e la storia della guerra che lì si combatté nel primo, come adulto e custode di memoria che ne gestisce un rifugio nel secondo, come bambino di un padre che quell’incontro con la montagna ha reso possibile nel terzo. 

L’ultimo è il più giallo dei tre, con un “effetto wow” finale, come lo chiama Giuriatti, da non svelare assolutamente. Affronta con taglio quasi poliziesco il tema della sepoltura dei soldati morti in Grappa, sia italiani che austriaci, nel sacrario costruito da Greppi e Castiglioni per volere del Duce, nel 1935. La storia, che spazia dalla Grande Guerra alla contemporaneità mescolando grandi protagonisti, veri eroi e anime perdute, viene raccontata dal Vecio a un improbabile gruppo di giovani uomini bloccati in un albergo da una bufera, luogo e condizioni perfette per affrontare senza scappatoie il passato: nessuno di loro sarà più lo stesso dopo quell’esperienza. 

È una incredibile abilità narrativa a tenere incollati alle pagine i lettori, sollecitati a non dare per scontato nulla degli elementi abilmente preparati dall’autore per parlare di storia come in pochi sanno fare. La data di pubblicazione dell’Angelo del Grappa è uno di questi: non il 2020 con Rizzoli, ma il 2012 come autopubblicazione, in 10 copie, affidate alla Libreria Palazzo Roberti di Bassano (il Financial Times l’ha definita una delle più belle del mondo). Non sapevano ancora, le tre sorelle Manfrotto che la gestiscono, che sarebbe stato il titolo più venduto dell’anno. 

Loris Giuriatti, foto dell'autore.

Loris Giuriatti, com’è nata l’idea della trilogia che ti ha impegnato per oltre un decennio?

Volevo raccontare la storia della Prima guerra mondiale e del Grappa, che è un grande amore, ai miei ragazzi a scuola, perché la storia è una delle materie più ostiche. Ma visto il successo Rizzoli mi ha proposto di proseguire. All’epoca avevo meno competenza, ma ho studiato molto. L’"Alpe madre", scritto 10 anni dopo, rappresenta la mia evoluzione come scrittore e nella conoscenza delle persone: quelle che ci sono esistono davvero. Avendo dedicato il primo libro ai nostri soldati (con il diario dell’ardito Antonio Zicchi), il secondo al punto di vista più austriaco (perché il mio modo di fare storia è questo, non parlo mai di nemico), volevo chiudere affrontando il tema dei caduti senza nome, di qualunque paese, e così è nata La tormenta di San Giovanni.

Da dove arriva lo spunto? 

Passando i giornali dell’epoca fascista ho trovato un trafiletto di 5 righe sulla costruzione di questo grande monumento bianco e di qualcosa di poco onesto che successe allora, ma subito fermato. Era quello che stavo cercando per dare un’impronta un po’ più gialla alla mia idea, anche se io giallista non sono. La trama è molto intricata e bisogna leggerla tutta, fino in fondo: l’ultima parte l’ho riscritta molte volte, non è da me, ma volevo trovare il modo giusto, perché la chiusura ce l’avevo in testa: finire con l’inizio, da vero prequel. 

Quanto c’è di vero nei tuoi libri?

Io sono uno storico di fondo, faccio ricerche e parto sempre dai giornali. Individuo il periodo, poi passo ore nell’emeroteca di Bassano dove sfoglio, chiedo e prendo appunti, infatti ogni volta che mi vedono sanno che sto iniziando un nuovo libro. Quando ho focalizzato l’oggetto della mia attenzione mi concentro solo su quello, per entrare nella mentalità dell’epoca ed essere accurato in ogni particolare. Sui due sacrari ho fatto un enorme lavoro di ricerca perché tutto corrispondesse al vero.

Chi ti ha insegnato a raccontare storie?

È più che altro un dono che sfrutto anche in montagna, o quando mi invitano a tenere lezioni in giro. Sto cercando di approfondirlo per migliorarmi, aiutandomi anche con le mie competenze di teatro, perché per come ne voglio parlare io oltre alle capacità narrative e a conoscere i fatti devi studiare recitazione, come muovere le mani, come parlare, che postura tenere…Mi ispiro alla scuola di Alessandro Barbero: ho una bellissima foto con lui che tiene in mano L’Angelo del Grappa.

Nella trilogia ci sono elementi comuni: la narrazione come atto di memoria e soprattutto la staffetta generazionale. C’è sempre un vecchio che trasmette a un giovane un passato che altrimenti si perderebbe e che invece lui trasmetterà ai suoi figli. Chi è stato quel vecchio per te? 

Mio nonno, che mi ha dato tanti input senza però mai raccontare troppo, perché faceva parte di una generazione che la guerra l’ha pestata, nel vero senso del termine: mi diceva che correva sopra i morti. Mi aveva sempre raccontato che era un fante del Carso, che è un modo per dire “uno dei tanti”: il grosso del nostro esercito era lì e la maggior parte era arruolata come fante. Quando ho chiesto il foglio matricolare dopo la sua morte ho scoperto che era un alpino del Battaglione Monte Berico che aveva combattuto sul Pasubio nella battaglia del Col Santo, da cui tornarono in pochissimi. Era pure stato prigioniero. Tutto quel detto e non detto mi ha fatto sentire in dovere di dover approfondire e di raccontare, ho anche contribuito a restituire l’identità a ossa senza nome, e sono finito a parlare di storia su una tv locale dove ho all’attivo 75 puntate di “Vi porto in montagna”, e altre ne seguiranno. 

Tutti i tuoi personaggi sono stregati dal Grappa, che li cambia per sempre, anche tu hai ricevuto la “chiamata”?

Tutti noi di queste zone siamo nati a pane e grande guerra, e sul Grappa, a visitare i grandi sacrari, siamo stati portati fin dall’infanzia dai nostri padri e ne abbiamo sentito parlare dai nostri nonni, poi però io non ne avevo voluto più sapere nulla. Ci sono tornato quando mi sono fidanzato con mia moglie, una svizzera che però viveva qua. Quando anche io sono venuto ad abitare con lei ho cominciato a farla a piedi, con dislivelli importanti, da solo. Per distrarmi una volta raccolsi da terra uno dei tanti oggetti appartenuti ai soldati, ancora se ne trovano tanti da noi. Era una suola di scarpa: cominciai a fantasticare su quell’oggetto e quando arrivai in cima quella enorme cosa bianca che avevo visto tante altre volte aveva qualcosa di diverso, ed erano le vite dei soldati che mi immaginavo sepolti là dentro. Per me è stata una folgorazione. La montagna mi aveva parlato come un fantasma e io finalmente avevo avuto la capacità di vederla.

Nella Tormenta di San Giovanni, che è ambientato negli anni ’90, fai riferimento a una strage dell’età contemporanea, come mai?

Perché mi ha fatto perdere l’innocenza del bambino. Io arrivo dalla Padova contadina, dalla campagna veneta dove avevo un rapporto naturale con la morte, sia degli animali che degli uomini. Era consuetudine ammazzare il maiale perché rappresentava l’inizio dell'inverno e i polli all’inizio della primavera, e quando moriva l’anziano ti portavano a casa sua per farti vedere che era sereno, perché aveva vissuto la sua vita. Quell’evento invece mi fece capire che anche dei bambini come me potevano morire, e cosa fosse la morte violenta. E soprattutto che a volte si chiede conto più alle vittime che ai carnefici. C’è la mia vita nei miei libri.

Sei una guida escursionista, dove porti i tuoi clienti?

Nelle mie zone, fra il Grappa e l’Altopiano. Sono anche appena diventato socio CAI ad honorem, grazie alla sezione di Marostica. Tutti quelli che camminano in montagna dovrebbero esserlo, per riconoscenza verso chi fa la manutenzione dei sentieri.

Loris Giuriatti, foto dell'autore.