La rieducazione selvatica di Matteo Righetto: è in libreria "Il richiamo della montagna"

Il libro-manifesto per nuovo Umanesimo dove anche la Natura deve trovare posto. A 80 anni dalla Liberazione, quella di "salire in montagna" è ancora una scelta etica potente.

Era nell’aria già dall’uscita del Sentiero selvatico, un anno fa, e ora è arrivato: il primo saggio di Matteo Righetto, Il richiamo della montagna (pp. pp. 128, 14 euro, Feltrinelli 2025), chiaramente ispirato nel titolo al romanzo dell’amato Jack London, dove le vicende del cane Buck hanno commosso milioni di lettori, più e meno giovani, spiegando meglio di qualunque trattato la violenza dell’uomo sulla natura: feroce perché cieca e stupida perché alla fin fine controproducente. È un tema che si ritrova, rimescolato e attualizzato, in questo saggio filosofico che vuole in realtà essere piuttosto un “discorso sulla montagna”, come dice l’autore, un manifesto per un nuovo Umanesimo che al centro ponga non più solo l’uomo, ma anche la natura. Una missione necessaria, per superare il paradosso dell’antropocentrismo: perché in un mondo dove è sempre più al centro, l’uomo si sente invece più solo e infelice? 

Democraticamente Righetto si arrabbia con una mentalità trasversale che accomuna certi montanari, certi alpinisti, certi turisti, ovvero coloro che frequentano la montagna in maniera consumistica. Critica la “società dei 10 secondi” schiacciata sul presente e deresponsabilizzata, perché consapevole che si vive con la memoria corta, causa diretta della diffusa “sindrome dell’eterna fanciullezza” per cui la saggezza oggi abita più fra i giovani che tra i vecchi.

L’inizio, che si snoda con uno stile quasi narrativo, in omaggio alla commistione di generi che caratterizza la literary science, prende le mosse da due eventi-guida: la tragedia della Marmolada (2022) e la tempesta Vaia (2018). E segue il punto di vista di due “tipi” umani opposti e ricorrenti in ogni luogo e in ogni epoca: Agata e Silvestro, ovvero da un lato “la vègia” che vive in armonia con il suo ambiente e soffre con la sua montagna, e dall’altro il rampante montanaro che “se ne frega” del come, basta che arrivino i soldi (anche se pure lui, in fondo, non si sente tanto bene). Poi subentra l’invettiva vera e propria (una “gentile rabbia”, la definisce Righetto), una sferzante denuncia che con domande dirette al lettore (tu, proprio tu!) vale come chiamata in causa generale, a cui segue una liberatoria “pars costruens” che apre alla speranza, facendo appello alla poesia e al bello, con proposte ed esempi virtuosi.

 

Matteo Righetto, si può dire che tutto parte con Tina, la protagonista del Sentiero selvatico che già faceva capolino nella Stanza delle mele

Le mie riflessioni partono anche prima di Tina, perché nei romanzi precedenti c’era già un’eco lontana di questa sensibilità. Dal punto di vista narrativo però lei rappresenta un alter ego che stava maturando e aveva bisogno di esprimersi in prima persona per la prima volta. Io non ho mai scritto nulla del genere, ma avvertivo il bisogno di condividere ciò che sento.

 

Cosa c’entrano la bellezza e la poesia in un discorso sul cambiamento climatico?

La bellezza può salvare il mondo, come si dice, ma va innanzitutto praticata, non dobbiamo mai darla per scontata e invece sempre considerare il nostro ruolo di custodi. La poesia è la sacralità presente nella natura. Ma il punto è che il cambiamento climatico non si affronta solo con la scienza, altrimenti lo avremmo già risolto. Dobbiamo smuovere le coscienze se vogliamo avere qualche risultato e pensare a un nuovo Umanesimo. La poesia e la bellezza sono altrettanto importanti della scienza, in questo senso, senza ovviamente nulla togliere alla scienza, di cui sono un convinto sostenitore, vorrei non essere frainteso su questo.

 

Come gestiresti il dibattuto fenomeno dell’overturism?

Ho provato ad affrontare il tema in maniera esistenziale. Perché ci comportiamo così? Proviamo a scendere da quei pullman, da quelle automobili, o a salire sui passi dolomitici con uno spirito diverso. Proviamo a “tornare a casa” e a ritrovarci. Presentando Il sentiero selvatico l’anno scorso mi sono accorto con stupore che esiste una comunità che condivide lo spirito di Tina e sente la necessità di cercare le parole giuste per riconoscersi come tale. Ora può trovarle in questo piccolo libro manifesto, che ho scritto per offrire suggerimenti e indicazioni per un modo nuovo di rapportarsi con la natura. Non c’è nulla di peggio di un turismo volgare che viene cercato da chi dovrebbe invece tenersene alla larga.

 

Qualche esempio virtuoso?

Nel libro parlo di Svizzera e Austria. In Carinzia hanno smantellato gli impianti di Dobratsch per far posto a piste di fondo, scialpinisti e ciaspolatori e il turismo è in aumento. Lo stesso hanno fatto a Cardada, in Canton Ticino. Non penso che si debbano distruggere gli impianti esistenti, ma di certo non farne di nuovi. Del resto, se da 10 anni il turismo estivo in montagna è in aumento, significa che l’impianto non rappresenta più il core business e che è il momento di pensare alle alternative. Non facciamoci trovare impreparati quando fra 15-20 anni non ci sarà più neve. 

 

Tornare a casa è per te tornare in montagna. Al mare non valgono queste riflessioni?

Possono certamente valere per qualunque biotopo, ma la montagna rimane un luogo di resistenza particolare. Innanzitutto perché è il luogo dove più si avverte il cambiamento climatico e dove più rapide sono le trasformazioni e più frequenti i disastri ambientali, i disagi e la perdita di biodiversità. In quanto terra di frontiera è il termometro di ciò che sta accadendo intorno a noi. In letteratura poi, è da sempre luogo dello spirito e della poesia, pensiamo all’Antico Testamento o a Petrarca. A livello personale, montagna è per me dove regna bellezza, dove ci si eleva, dove l’aria si fa sottile. Ma la consueta sacralità della montagna oggi è più dissacrata che mai.

Montagna e Resistenza: quest’anno ricorrono gli 80 anni dalla Liberazione, tuo nonno Arturo andò a combattere in Russia con Mario Rigoni Stern, di cui parli diffusamente.

Magari si conobbero, di certo combatterono vicini. Quando gliel’ho chiesto, Mario non se ne ricordava. Mio nonno non tornò più e ricordo bene da ragazzino che mia nonna, ogni volta che sentiva fischiare un treno, provava un brivido di speranza: per tutta la vita lo aspettò pur sapendo che non sarebbe tornato. Mio padre andò perfino a cercarlo in Russia, senza trovarlo, e lei si augurò che si fosse rifatto una vita pur di saperlo vivo. Quanto a Mario, fu nel silenzio del bosco che ritrovò l’armonia, la più importante risposta all’orrore della guerra. Anche lui credeva nella sacralità della natura e nel silenzio. Oggi invece vince chi grida più forte.

Restando sul piano della concretezza, sei diventato presidente della “piccola ma prestigiosa” sezione CAI di Livinallongo-Santa Lucia, nelle Dolomiti Bellunesi. Una scelta controcorrente in un’epoca in cui l’Istat ha certificato la crisi del volontariato. Che bisogno c’era?

Io ho la fortuna come autore di poter affrontare spesso con libri, conferenze, editoriali questi temi peraltro scomodi, senza i quali avrei sicuramente più consenso. Ma non basta, perché la democrazia è partecipazione attiva e proattiva. Sento il dovere civile e morale di occuparmi in prima persona della montagna, di far manutenzione dei sentieri, di programmare delle uscite di un certo tipo. Per esempio, abbiamo aiutato i contadini di alta montagna a ricevere il presidio Slow Food. In questi due anni si è creato un bel gruppo intorno a me ed è una gran fortuna. Il volontariato è una cosa molto bella, e mi spiace che il CAI abbia tanti iscritti e pochi soci veri che si impegnano attivamente, e che sanno troppo poco dell’impegno del CAI per l’ambiente.

Righetto con la Sezione CAI di Livinallongo-Santa Lucia di cui è presidente. Foto dell'autore.

Quali critiche ti aspetti al libro? 

Penso che sarà proprio lo spiritualismo ad essere più sotto attacco, l’idea poetica della montagna che viene vista in contrasto con la dimensione economica della vita. Critiche molto superficiali a cui sono pronto a ribattere tranquillamente, sono armato di idee. Se mi espongo, lo faccio a ragion veduta.

 

Ripensare l’alpinismo, come?

Non vedo troppa differenza, a livello concettuale e filosofico, tra chi affronta i passi dolomitici come se fossero un autodromo e chi va in parete solo come forma di performance, una modalità che per me appartiene al passato. Il problema sta nella frattura, nel grado di separazione tra il frequentatore della montagna e la montagna. Va bene divertirsi in montagna, lo faccio anche io, purché come scrivo non diventi un “narcisistico egodromo”. Dico solo che va riscoperto uno spessore umano, poetico, esistenziale che abbiamo perduto, altrimenti che differenza c’è fra andare in montagna e al luna park?

 

Cos’è la “rieducazione selvatica”? 

Quando ci troviamo di fronte a un bagliore di bellezza, a un’emozione profonda come quella di un tramonto, o del fischio del camoscio, senza saperlo ci liberiamo di tutti gli orpelli e le sovrastrutture che ci hanno reso la vita più comoda, ma non più felice. Per me quello è il richiamo selvatico, il richiamo della montagna che non riusciamo più ad afferrare perché è talmente lontano nel tempo, che lo abbiamo dimenticato. Eppure ci rende felici. Non sono un primitivista, non predico di tornare a vestirci di pelli e vivere nelle caverne. Il punto è ricominciare a saper assaporare quei momenti per portarli con noi ogni giorno nelle relazioni umane, e riempire di questa consapevolezza lo zaino della vita.

Righetto alle prese con la manutenzione dei sentieri insieme ai soci della Sezione CAI che presiede. Foto dell'autore.