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È uscito La montagna non ride e non piange, di Marco Berti (pp. 208, 16,00 euro, Solferino 2024). È il terzo libro di narrativa per lui, che ha debuttato nel 2018 con Il vento non può essere catturato dagli uomini ed è autore anche di due saggi sull’alpinismo himalayano usciti in edicola con il Corriere della Sera, ma indubbiamente “Il vecchio ha ancora da dare”. Non è certo vecchio Berti, classe 1965, ma ci permettiamo questa ironia perché è quella usata da Tom Ballard, il “figlio della montagna”, giovane amico e compagno di cordata, al quale Berti ha dedicato un libro non banale, dopo la morte sul Nanga Parbat nel 2019. La nuova opera è una pagina diversa, molto intima e autobiografica. Non c’è l’alpinismo dei numeri, della toponomastica, degli itinerari. Non c’è sfoggio di elenchi. Non c’è egocentrismo. In quello che manca sta il senso di quello che c’è. L’alpinismo della riflessione, condensato in massime dal sapore aforistico che guizzano fra le righe – “la nota geniale che ti spiazza” scrive Alessandro Gogna nella prefazione, l’insegnamento del verticale che decanta nel corpo e nella mente. Come se, passata la fase adolescenziale della passione cieca e forsennata, fosse ora il tempo della maturità. Del distacco. Delle giuste proporzioni. Mentre a passare non è mai il tempo dell’amicizia, o degli affetti famigliari.
Il titolo detta la linea: “La montagna non esiste”, provocava Franco Brevini, la montagna non ride e non piange, rilancia Berti, non è umana, ma dell’uomo conosce molto. “Luogo senza vita che può raccontare un’infinità di vite”. Come quelle che ha vissuto lui, veneziano di Cannaregio allevato alle rocce di Borca di Cadore, diventato forte scalatore sulle Dolomiti, poi in tutto l’arco alpino, infine catturato dall’aria sottile dell’Himalaya, dove dalla seconda metà degli anni Ottanta ha organizzato e partecipato a 27 spedizioni alpinistiche a carattere anche scientifico e umanitario, che ha raccontato per Il Gazzettino e la Gazzetta dello Sport. Dopo aver gestito un’agenzia che organizzava viaggi e spedizioni, oggi si occupa di patrimonio in un’azienda di Venezia, ama dipingere, comprare libri e sempre viaggiare. Ogni tanto arrampicare.
Marco Berti. Foto di Caroline Schmitt.Marco Berti, colpisce in questo libro la quasi totale assenza di riferimenti geografici e di una vera trama di riferimento, perché il bisogno di scriverlo?
Sono partito dal ricordo di due amici e dal bisogno di tornare alla mia prima via nuova, aperta con uno di loro 40 anni fa. Non voglio dire che montagna sia (chi mi conosce lo capisce, è dove sono cresciuto), per preservare la sua dimensione simbolica, ed è per questo che non ho voluto in generale dare troppi altri riferimenti, perché in questo libro molti si possano riconoscere. Ognuno deve trovare la sua montagna. Non parlo di alpinismo estremo, ora mi piace più vivere la montagna per quello che è, per l’emozione che mi dà e anche nel rispetto delle mie capacità attuali. Le ultime salite impegnative le ho fatte con Tom Ballard, oggi arrampico solo con mia moglie (Caroline Schmitt, alpinista francese, NdR). Mi sono sentito finalmente rilassato e libero nella scrittura, dopo il timore degli esordi, che devo a Mirella Tenderini e Gherardo Priuli, oltre che a un incontro casuale con una scrittrice, Cinzia Giorgio».
“Amicizia non è una parola da ostentare al bisogno, ma da realizzare nel tempo”. Questo è uno dei temi portanti. Cosa si prova a perdere un amico in montagna?
Alcune morti mi hanno segnato molto, mi hanno allontanato dall’aspetto sportivo dell'alpinismo e mi hanno avvicinato a quello emotivo. Io da giovane ero un “matto”, non usavo chiodi, mi divertivo sul marcio, se ripenso a quello che ho fatto mi sudano le mani. Invece non c’è bisogno della difficoltà per vivere la montagna. Sono cambiato parecchio. Ma l’avevo già capito quando ho saputo che sarei diventato padre.
Scrivi: “Accettare di morire per una passione non può essere imposto a chi ha bisogno della tua presenza”. Quando sei diventato padre hai abbandonato l’alpinismo estremo. Sbaglia chi agisce diversamente?
Un figlio è una scelta forte. Scegli di diventare padre. Se muori proseguendo la tua attività privi i tuoi figli di qualcosa di importante. Per me è così, altri sono indifferenti su questo aspetto, anche se non critico nessuno. Ho ricevuto parecchi inviti a partecipare a spedizioni dopo la nascita delle mie figlie, ero tentato, era anche un lavoro per me che avevo un’agenzia che organizzava proprio queste cose…Ma mi ero imposto che diventando padre avrei vissuto la montagna in un altro modo, senza rischiare.
“I giovani sono l’oggi del nostro ieri”. L’alpinismo è pronto al rinnovamento?
I vecchi dovrebbero capire che devono lasciare andare avanti i giovani, aiutandoli e supportandoli, senza viverla come un’usurpazione. Qualunque associazione implode se no. Di fronte a un giovane che fa una salita impegnativa l’unica risposta non può essere “ma ai miei tempi”. Noi ci saremmo arrabbiati se ce lo avessero detto. Anzi, i giovani di oggi sono seri, attenti alla preparazione e al proprio fisico (se corrono pensano anche a non rovinarsi le ginocchia, non come facevo io!), all’alimentazione e quindi rischiano di meno. Noi eravamo più istintivi, pensavamo solo a fare fatica. E non avevamo i social, dove sembra che l’unico scopo sia trovare un nemico.
Hai viaggiato e scalato in Asia, America del Nord, Medio Oriente. Sei legato soprattutto al Nepal dove sostieni progetti solidali. Tornerai a breve?
In aprile partirò con la mia famiglia per il Nepal per un mese, è la trentacinquesima volta che ci vado, ma tutti insieme mai. Faremo un trekking per Kanchenjunga (a cui sono particolarmente legato), Makalu, Lhotse, Everest e Cho Oyu, con punte a oltre seimila metri. È un viaggio impegnativo, ma incredibile. È il sogno della mia vita e mi commuovo da solo quando ci penso. Le mie figlie non fanno alpinismo, la grande è laureata in biomeccanica e lavora nel mondo dello sport, l’altra vuole fare carriera diplomatica e cammina molto. Ho trovato montagne dove possono salire tutte e due, sperando nelle condizioni climatiche. E poi andrò a trovare la famiglia sherpa che mi ha adottato. Per gli sherpa ho sempre avuto un interesse particolare, da quando avevo visto una foto dei tre della spedizione al Monte Api, l’unica montagna del Nepal che non ho visto.
Che idea di alpinismo lasci alle tue figlie?
Sono orgoglioso di avere trasmesso alle mie figlie il mio vissuto, e ora di portarle a vivere quello che hanno ascoltato per anni. Da casa mia, che è un piccolo museo (lo sherpa che ha partecipato alla spedizione di Tillman all’Everest del 1938 per esempio mi ha regalato la sua piccozza), girava gente di tutto il mondo. La mia soddisfazione di padre e alpinista è di portare le mie figlie in Nepal. Se avessi proseguito magari non sarei stato qua o non in condizioni integre, ho tanti amici senza naso, senza dita, o peggio. Per molti è un’ossessione, per chi è ad alti livelli già solo partire conferisce un certo status. Non c’è solo la passione, è una gabbia dorata. Alla montagna io non ho rinunciato, ma le mie scelte sono chiare.
Marco Berti in arrampicata. Foto di Caroline Schmitt.